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Israele, il futuro è ogni giorno

Israele, il futuro è ogni giorno

Nonostante l’instabilità politica, Gerusalemme è sempre più avanguardia mondiale. E mentre svetta nelle tecnologie (anche in campo bellico) punta al rango di potenza energetica.


Cinquecento chilometri quadrati nel Mar Mediterraneo, potenzialmente ricchi di gas e con un valore stimato in miliardi di dollari. A contenderseli, due Paesi che tra loro non hanno relazioni diplomatiche, hanno già combattuto guerre ufficiali e guerre ibride, e formalmente si trovano ancora in «stato di guerra» sin dalla loro nascita come Stati indipendenti. Sono Israele e Libano, una democrazia compiuta la prima e un complicatissimo sistema politico il secondo. Entrambi condividono una crisi di leadership dei rispettivi governi: con Gerusalemme che ha visto avvicendarsi tre premier al governo in altrettanti anni, e con il Libano in piena decadenza di legittimità politica, colpito da una spaventosa recessione economica e una paralisi delle istituzioni.

È lo specchio dei due volti più rappresentativi di quel Medio Oriente che affaccia sul Mediterraneo e, almeno nelle intenzioni, vorrebbero proiettarsi nella partita energetica del nuovo secolo, dopo gli sconvolgimenti della guerra in Ucraina, candidandosi a rifornire l’Europa di gas (Israele) e a uscire da un perdurante stato di ristrettezze in cui è precipitato (Libano). Orfani in piena pandemia del politicamente longevo Benjamin Netanyahu – tuttora sotto processo per corruzione, frode e violazione della fiducia – gli israeliani si sono affidati a maggioranze ballerine fino all’arrivo di un nuovo premier, Yair Lapid, diventato primo ministro ad interim lo scorso luglio succedendo al primo ministro Naftali Bennett. Ora, però, ad attenderlo c’è un nuovo voto politico, il quinto in tre anni, che potrebbe persino riportare Netanyahu al governo, nonostante le accuse dei tribunali.

È uno scenario niente affatto improbabile, visto che in tutti i sondaggi il Likud di Netanyahu è ampiamente il primo partito, anche se questo non basterà a garantirgli una maggioranza e costringerà il Paese a un’instabilità di fondo che non giova agli affari né alle relazioni internazionali. Lo sanno bene i libanesi, la cui élite politica è cresciuta all’ombra di pesi e contrappesi politici, forse utili a bilanciare una realtà multiculturale e multiconfessionale, ma che hanno reso il Libano uno dei sistemi politici più complessi al mondo e una realtà così frammentata che, anche geograficamente, è impossibile dire chi comanda davvero e dove.

Così, oggi a Beirut la politica vive la fase più acuta di una crisi di legittimità che dura da decenni. Specie dopo che nel 2019, con l’esplosione della bolla finanziaria, la popolazione ha dato vita a movimenti di protesta per chiedere le dimissioni dell’intera classe dirigente. Facile comprendere il motivo: il debito pubblico è al 135 per cento del Pil, la lira libanese si è svalutata del 90 per cento rispetto al dollaro Usa e l’inflazione ha generato una crisi sociale che ha precipitato l’80 per cento della popolazione sotto la soglia di povertà. Senza contare la semi-distruzione del porto di Beirut nell’agosto 2020, che ha spazzato via la speranza di risollevare i traffici mediterranei.

Ecco perché un accordo commerciale tra Israele e Libano è visto da entrambi come salvifico e benaugurante. L’intesa sui rispettivi confini marittimi e lo sfruttamento dei promettenti giacimenti di gas nel Mediterraneo orientale potrebbero segnare un deciso passo in avanti, accelerare le loro performance economiche, far valere la pace in Medio Oriente, allontanare i fantasmi della guerra civile tra le fazioni laiche e religiose libanesi e quelli della «guerra guerreggiata» tra le forze armate israeliane e gli Hezbollah. Può essere un risultato storico. Il Libano si assicurerebbe un tratto di mare a Nord-Est che ingloba il sito chiamato Qana, la cui produzione deve ancora cominciare e di cui non si conoscono le potenzialità energetiche. Avrà tutti i diritti di esplorazione e sfruttamento del giacimento, anche se parte del sito si trova in acque israeliane. Gerusalemme, parimenti, si assicurerà il giacimento offshore di Karish, già interamente nelle acque israeliane, le cui riserve accertate e probabili potrebbero fruttare qualcosa come 40 miliardi di metri cubi di gas e 61 milioni di barili di olio, pari a 317 milioni di barili di petrolio equivalente. Una fortuna e un volano per l’opportunità – non meno storica – di fare di Israele uno dei principali fornitori di gas naturale dell’Europa. Che dovrebbe prendere lezione.

Con questi numeri in giro, ecco perché probabilmente l’Alta corte di giustizia dello Stato di Israele ha respinto lo scorso 23 ottobre le numerose petizioni che avevano come scopo bloccare l’accordo sulla demarcazione dei confini marittimi col Libano, aprendo la strada al governo di Gerusalemme per approvarlo e firmarlo entro l’autunno. Le petizioni erano state presentate da due organizzazioni non governative – Kohelet e Lavi – e dal religioso sionista e deputato Itamar Ben-Gvir, ma dietro ci sarebbe lo zampino del redivivo Netanyahu, che si presenta alle elezioni osteggiando ogni accordo politico del rivale Lapid, specie se siglato con il «nemico» storico: «L’accordo con il Libano equivale a una resa a Hezbollah» ha tuonato Bibi.

Ma non c’è solo questo. Lapid potrebbe catapultare lo Stato ebraico al rango di potenza mondiale energetica, raggiungendo persino l’autosufficienza e battendo le mire geopolitiche anche della Turchia, altro candidato a sostituire la Russia nel rifornire di energia l’Europa. Secondo il premier, infatti, è un «risultato storico che rafforzerà la sicurezza di Israele, porterà miliardi nell’economia israeliana e garantirà stabilità al confine settentrionale». Del resto, il vero nemico dello Stato ebraico è l’Iran. I cui droni attualmente impegnati in Ucraina appaiono sempre più come un test per scatenare poi una guerra contro Gerusalemme. Che da par suo studia nuovi sistemi di difesa ultra tecnologici. Per questo, il presidente Volodymyr Zelensky vorrebbe ricevere da Gerusalemme il sistema Iron Dome, il più efficace scudo di difesa missilistica al mondo, che riesce a intercettare fino a 1.100 missili simultaneamente entro 70 chilometri di distanza.

Si accontenterebbe comunque anche dei droni e dell’addestramento dell’intelligence israeliana: «Siamo pionieri nel campo dei veicoli senza pilota e siamo considerati un leader mondiale nello sviluppo delle tecnologie relative» dichiara orgoglioso il generale Amikam Norkin, già comandante dell’aeronautica e sicuro che la sfida hi-tech tra Iran e Israele è una partita già vinta, consapevole che Avnon Group, Israel Aerospace Industries, Elbit e Spear sono già oggi considerate le aziende migliori al mondo nel settore. Come sostiene Jonathan Menuhin, ceo dell’Israel Innovation Institute, è anche merito della capacità di fare squadra degli israeliani: «Ogni governo crea le opportunità e gli strumenti per consentire all’ecosistema nazionale di portare innovazione continua. E mette insieme imprenditori, ong, start up e opportunità diffuse, che aiutano a mantenere un sistema vibrante e attrattivo per gli investimenti. Non solo ogni università ha un suo corpo tecnologico e di ricerca. Non solo abbiamo Tel Aviv, che è il centro propulsore dello sviluppo tecnologico, ma anche Haifa, Beer Sheva, Gerusalemme vedono oggi attività fiorenti».

Le dinamiche di questo «ecosistema» si fondano su «una cultura dell’innovazione finalizzata a creare nuovo business» e consentono a Israele di primeggiare in molti settori: «Mobilità, salute, agricoltura, cambiamento climatico, sono solo alcune delle più importanti realtà che vedono il mondo del lavoro e della ricerca strettamente connessi». Nelle tecnologie per il cambiamento climatico, per esempio, Israele vanta 694 start up. Al punto che una nuova impresa su 7 oggi sviluppa tecnologie orientate al clima e all’energia. «È un settore che nei primi sei mesi dell’anno ha già totalizzato investimenti per 1,47 miliardi di dollari». Ad aver attratto il maggior numero di finanziamenti tra il 2018 e il 2021 sono la mobilità e i trasporti sostenibili, le proteine alternative, l’agricoltura intelligente e i sistemi energetici puliti, che insieme rappresentano il 58 per cento dei finanziamenti totali. Si spiega quindi perché un accordo tra Israele e Libano – mediato dagli americani – consentirebbe non solo una spartizione dei giacimenti di gas naturale, ma il ritorno prepotente del Mediterraneo al centro della geopolitica e della geoeconomia mondiale.

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