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L’era della disfida asiatica

L’era della disfida asiatica

La produzione di molte aziende (dalla Apple in giù) si è spostata dalla Cina all’India, rinforzando quella che è diventata la quinta economia mondiale anche sfruttando le debolezze fronte Covid di Pechino e la guerra in Ucraina. Così, con un Pil che presto supererà quello tedesco, Delhi è in ascesa rispetto all’ingombrante vicino. Ma i suoi grandi problemi rimangono.


Tra meno di due mesi avverrà uno dei sorpassi più importanti nella storia contemporanea. Il Fondo dell’Onu per la popolazione stima che a fine giugno l’India avrà 1 miliardo e 428 milioni di abitanti: 3 milioni in più rispetto alla Cina che, ormai in una fase di declino demografico e d’invecchiamento, calerà a 1 miliardo e 425 milioni. Il salto contribuirà a modificare in profondità gli assetti strategici mondiali, e la stessa economia globale. È un cambio di rotta che rischia di trasformare quel che fin qui è stato celebrato come l’inevitabile «secolo cinese» in qualcosa di totalmente diverso: i primi cent’anni del millennio, insomma, potrebbero diventare «il secolo indiano».

L’assunto è più che concreto, e non si basa soltanto su un destino di supremazia demografica. A metà del 2022 il Prodotto interno lordo dell’India ha superato quello del Regno Unito, facendone la quinta economia mondiale, così com’è praticamente certo che al più tardi in tre anni supererà anche quello della Germania. In un mondo che rallenta, o che si limita a camminare, l’economia di Delhi continua a correre, e lo fa a un ritmo a dir poco insostenibile per il resto del globo: dopo la crescita record del 2022, vicina al 7 per cento, quest’anno l’India nelle ultime stime del Fondo monetario internazionale continuerà a espandersi al 6-7 per cento, mentre il diretto competitore cinese si fermerà al 5. Dal 2024, poi, e per almeno quattro anni, il Pil indiano segnerà stabilmente un più 6 per cento: nessun altro Paese al mondo, a parte qualche piccola economia africana, riuscirà a fare altrettanto.

In questo prolungato balzo produttivo, più che la demografia conta la politica. Il governo di Narendra Modi, il premier conservatore al potere dal 2014 con il suo Bharatiya Janata Party, ha messo a segno alcune azzeccate mosse strategiche, ed è stato più che abile anche nel cavalcare le ultime crisi geopolitiche globali. Le brutali restrizioni imposte alle produzioni nel biennio 2021-22 da Pechino per fronteggiare il Covid, insieme con lo scoppio della nuova Guerra fredda tra gli Stati Uniti di Joe Biden e la Cina di Xi Jinping, da oltre due anni hanno costretto molte grandi aziende a dare un addio alla Repubblica popolare e alla ricerca di nuovi poli manufatturieri. E l’India si è velocemente proposta come l’approdo più facile e conveniente: per quanto imperfetta, del resto, la sua democrazia è antica; la popolazione in maggior parte è anglofona, è giovane visto che oltre metà degli abitanti ha meno di 30 anni; e l’offerta di manodopera qualificata è davvero ampia.

In India, del resto, esistono 17 mila università e alcune primeggiano a livello globale, come l’Institute of technology di Madras (al top in una classifica di 230 atenei nazionali, dedicati esclusivamente all’alta tecnologia), come l’Institute of science di Bangalore, o come l’Institute of management di Ahmedabad. Nel Paese sono 13 milioni gli studenti universitari, e ogni anno se ne laureano 2 milioni, 500 mila dei quali in ingegneria e 250 mila in informatica.

Grazie a questo insieme di fattori, la strada verso Delhi è stata ineluttabilmente tracciata per una lunga serie di grandi imprese, soprattutto quelle costrette a dare un addio alla Cina come «fabbrica del mondo». A partire da Apple: nell’autunno 2022 l’India già rappresentava il 5-7 per cento della produzione globale del colosso delle telecomunicazioni, che l’anno scorso vi ha assemblato i suoi iPhone per 7 miliardi di dollari, ma lo scorso gennaio la casa di Cupertino ha annunciato che intende balzare al 25 per cento da qui al 2025. Sei mesi fa Ashwini Vaishnaw, ministro indiano dell’Informatica e dell’elettronica (ebbene sì: l’India ha un dicastero interamente dedicato alla materia), ha annunciato che la taiwanese Foxconn, primo fornitore di Apple, installerà la sua più grande fabbrica vicino a Bangalore, e che l’addestramento degli oltre 60 mila addetti è iniziato. Ma già dallo scorso settembre il nuovo iPhone 14 viene realizzato nello stabilimento da 35 mila operai che sempre Foxconn ha impiantato vicino a Chennai, la metropoli affacciata sulla baia del Bengala. Ed è sempre qui che la società sta velocemente spostando la maggior parte delle produzioni sottratte alla Cina, anche per le troppe chiusure imposte da Pechino agli impianti con la sua dura gestione del Covid. Lo stesso sta per fare Pegatron, l’altro fornitore taiwanese di Apple, che a sua volta ha scelto Chennai per investire 150 milioni di dollari in una nuova fabbrica.

È un fenomeno che l’India sta favorendo soprattutto nelle produzioni ad alta e altissima tecnologia. Il piano ideato dal governo Modi a inizio 2021, in meno di due anni, ha trasformato il Paese nel nuovo crocevia delle grandi catene globali manifatturiere, soprattutto nell’elettronica di consumo ma anche nei semiconduttori, dove quest’anno il prodotto locale crescerà del 50 per cento e raggiungerà un valore di 1.500 miliardi. La sostituzione ha causato un ribaltamento anche negli assetti del mercato interno: se nel 2014 oltre il 92 per cento di cellulari, computer e tablet venduti in India era importato, l’anno scorso – anche grazie a nuovi dazi sull’import – il 97 per cento di quei dispositivi mobili è stato fabbricato in casa.

L’ambigua linea di politica estera del presidente Modi, un alleato degli americani che però si tiene le mani libere in molti campi, gli ha consentito di approfittare anche dell’invasione russa dell’Ucraina. Dopo il 24 febbraio 2022, l’India non si è mai allineata all’Occidente, né ha mai condannato l’«operazione speciale» di Vladimir Putin. Al contrario, ha cinicamente colto l’occasione per sfruttare a suo favore le tensioni tra Est e Ovest. Così, qualche mese dopo l’inizio della guerra, quando le sanzioni degli Stati Uniti e dell’Unione europea hanno iniziato a ridurre il costo del petrolio russo, in 12 mesi l’India ne ha addirittura quadruplicato le importazioni, trasformandosi nel primo acquirente del greggio di Gazprom: un valore di quasi 33 miliardi di dollari nel 2022. Delhi è poi riuscita anche nel clamoroso paradosso di guadagnarci due volte, rivendendo il greggio allo stesso Occidente sotto forma di prodotti finiti. L’Ispi, Istituto per gli studi di politica internazionale, calcola che questa semplice triangolazione, tra l’aprile 2022 e il gennaio 2023, abbia fruttato 79 miliardi di dollari all’attivo commerciale di Delhi.

Fin qui le note positive. Ma l’India conserva tre problemi antichi. Il primo è la diffusa povertà, che affligge 300 milioni di abitanti: un decimo della popolazione vive con meno di 2 dollari al giorno, contro lo 0,1 per cento della Cina . Il secondo è la divisione in caste che, malgrado la loro formale abolizione nel 1950, continua a ostacolare l’integrazione tra classi, frena la mobilità sociale ed emargina circa 150 milioni di Dalit, gli «Intoccabili», che rappresentano quindi una buona metà dei poveri. Il terzo problema, forse il più grave, è la disoccupazione, che lo scorso aprile è svettata all’8 per cento, contro una media vicina al 7,5 negli ultimi 12 mesi. Sembra un paradosso, quindi, ma l’espansione economica dell’India – per quanto imponente – non sembra in grado di reggere il passo con il suo incredibile incremento demografico. È una crescita che non crea abbastanza occupazione. «Per assorbire la domanda di lavoro», stima Irfan Noruddin, un ricercatore nato a Mumbai che oggi dirige l’Atlantic council di Washington e insegna all’università di Georgetown, «l’economia indiana dovrebbe creare oltre un milione di nuovi posti al mese. Ma non ci riesce».

Proprio quello che potrebbe essere il clamoroso vantaggio demografico del Paese, insomma, rischia di essere una bomba a orologeria, per ora silenziata e coperta dal balzo del settore informatico indiano e dalla nuova centralità geopolitica del Paese. Ora sta alla politica – cioè a Narendra Modi, o a chi dovesse venire dopo di lui nelle elezioni del 2024 – capire come sfruttare le energie della popolazione più grande al mondo. Altrimenti il «secolo dell’India» finirà ancor prima d’incominciare.

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