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Hong Kong, la verità dietro il rogo di Tai Po: non è stato il bamboo a bruciare

Hong Kong, la verità dietro il rogo di Tai Po: non è stato il bamboo a bruciare

Il rogo di Tai Po fa 151 morti. Non è il bamboo ad aver alimentato le fiamme: materiali illegali, negligenza e identità culturale sotto attacco

C’è un dettaglio che stride nelle immagini del rogo di Wang Fuk Court, nel distretto di Tai Po: dopo giorni di fiamme, l’intelaiatura in bamboo delle impalcature appare ancora dritta, quasi intatta. Eppure molte cronache internazionali avevano indicato quel materiale — simbolo dell’artigianato cantonese e della skyline verticale di Hong Kong — come il colpevole ideale. Una narrazione pronta, che isolava un elemento visivo facile da additare, mentre ignorava la complessità del disastro.

Il bamboo non brucia. I teli illegali e i materiali infiammabili sì. E bruciano in fretta.

Secondo Finn Lau, citato in un thread su X ampiamente condiviso, la causa reale dell’incendio non sarebbe la tradizionale struttura in bamboo, bensì l’uso sistematico di reti da cantiere e teli non conformi, materiali economici ma altamente infiammabili che hanno agito come miccia verticale e orizzontale: dal basso verso l’alto, da un corpo all’altro, in una corsa di fuoco. Le fotografie successive al rogo mostrano: l’ossatura in bamboo si è piegata, non disintegrata. Il resto dell’edificio si è liquefatto.

Il punto della situazione: un bilancio che cresce drammaticamente

Il rogo è scoppiato nel pomeriggio del 26 novembre 2025 nel complesso residenziale Wang Fuk Court, in piena ristrutturazione. Le fiamme hanno investito sette delle otto torri del complesso, che contava migliaia di abitanti.

Nei giorni successivi, il bilancio della catastrofe è peggiorato costantemente. Il numero ufficiale dei morti è salito a 151. I feriti accertati ammontano a circa 79 persone, e decine — oltre 40 secondo le ultime dichiarazioni — risultano ancora disperse o non identificate. Tra i morti figura anche almeno un vigile del fuoco, chiamato a soccorrere sotto una pioggia di detriti e fumo.

Le operazioni di soccorso e identificazione delle vittime si sono protratte per giorni, in uno scenario di distruzione totale, con interi edifici trasformati in catastrofi fumanti, e decine di famiglie private di ogni certezza.

La risposta delle autorità: arresti, inchieste e sospetti

Dopo il rogo, le forze dell’ordine di Hong Kong hanno avviato un’inchiesta su scala ampia: sono stati arrestati in tutto circa 14 indagati per sospetta omicidio colposo e negligenza — dirigenti, tecnici e responsabili del cantiere. Allo stesso tempo, è scattata un’indagine per possibile corruzione nell’ambito dei lavori di ristrutturazione, nell’ambito del presunto uso di materiali “low-cost, high-risk” per aumentare profitti al minimo costo.

I primi accertamenti ufficiali confermano che alcuni teli di protezione esterni — utilizzati per coprire le impalcature in bamboo attorno ai palazzi — non rispettavano gli standard antincendio. In vari punti, sette delle venti campionature effettuate risultavano non conformi. Insieme a pannelli in materiale espanso e a coperture infiammabili, tali materiali avrebbero accelerato la propagazione delle fiamme, trasformando l’incendio in un inferno rapido e inarrestabile.

Nonostante la tragedia, il governo ha già annunciato l’intenzione di sostituire (o proibire) l’uso delle impalcature in bamboo a favore di ponteggi metallici “più sicuri”, senza attendere la conclusione dell’inchiesta tecnica. Una decisione che molti interpretano come una scelta politica: più di sicurezza, un fatto simbolico.

Quando la tecnica si intreccia con la cancellazione dell’identità

Se il bamboo non è il colpevole, qualcuno ha tutto l’interesse a farlo sembrare tale. Hong Kong appare come una città a cui stanno lentamente sottraendo i suoi ricordi. Prima le insegne al neon, smontate una per una. Poi le botteghe storiche, cancellate senza clamore. Poi la lingua, ridotta a dialetto folkloristico. Adesso l’impalcatura in bamboo — non un semplice metodo di costruzione, ma una silhouette visiva, un tratto identitario, un modo di “stare sospesi” sopra la metropoli con un’eleganza che nessun metallo potrà mai replicare.

Mentre l’Occidente e certi media rincorrono la narrativa semplificata del “bamboo pericoloso”, la vera questione — quella delle responsabilità, della corruzione, dei materiali scadenti, della sicurezza ignorata — resta nascosta, fuori dall’obiettivo. È un disastro costruito nel silenzio delle leggi omesse, della fiducia tradita, della memoria saccheggiata.

Il rogo di Tai Po non è solo un disastro edilizio. È un segnale. La fiamma che ha divorato quei palazzi è arrivata fino al cuore di una città che sembra voler rinunciare a definire se stessa. Il bamboo — fisicamente resistente al fuoco, ma vulnerabile al fuoco politico — diventa l’accusato ideale. E difenderlo significa difendere qualcosa di molto più grande: un’identità, una storia, un senso di appartenenza.

Quel che resta dopo le fiamme

Hong Kong piange le vite spezzate. Piange famiglie, piange sogni, piange l’idea stessa di casa. Le sirene si spengono, l’ultimo corpo viene recuperato, ma la cenere nasconde una domanda scomoda: chi risponderà davvero di questa tragedia?

Le impalcature resistono — e con esse resta l’amarezza di un’eredità che rischia di andare perduta. Le fiamme hanno consumato case, ma ciò che brucia davvero è la fiducia in chi governa, in chi costruisce, in chi decide cosa salvare e cosa cancellare.

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