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Sbarco a Taiwan

Sbarco a Taiwan

Il gigante cinese rivuole la «sua» isola e si prepara a espugnarla, forse con un attacco frontale, forse strangolandola in un assedio. Ma da decenni la ribelle Taipei attrezza difese accurate, soprattutto adesso che la minaccia è incombente. Potrebbe essere il conflitto più cruento della Storia recente, e tutto fa ritenere che sarà inevitabile.

La battaglia più cruenta che la storia contemporanea ricorderà potrebbe partire da Kinmen, un isolotto a poche bracciate dalla costa della Cina continentale. Qui è ancora territorio di Taiwan, avamposto militare di quell’isola «ribelle» che Pechino vuole riannettere al continente e Washington si è detta pronta a difendere manu militari.

Il fortino di Kinmen oggi è un’attrazione per turisti, ma presto i suoi tunnel e bunker scavati nella roccia potrebbero dover tornare operativi se il presidente Xi Jinping darà seguito alle dichiarazioni aggressive dei suoi generali. Il suo nome significa «porta dorata» ed è attraverso di essa che il leader cinese vorrebbe passare, se necessario con i carri armati, per chiudere una volta per tutte la disputa intorno al destino di Taiwan e cancellare ogni ricordo dei nazionalisti di Chiang Kai-shek, che qui ripararono dopo la Rivoluzione comunista. Uno «stress test »per saggiare le difese di Taipei – la capitale nominale di questo Stato insulare de facto – e conoscere la reazione di Washington.

«Ci siamo preparati a combattere già da tempo» dicono i diplomatici di Taiwan in Europa. E Roma non fa eccezione: «Li respingeremmo anche senza l’aiuto di alleati, siamo in grado di difenderci da soli. Non vi dovete preoccupare» è la risposta alla domanda su cosa accadrebbe se la Cina tentasse un’invasione. Il dilemma, dicono, è tutto della leadership comunista: Xi teme di essere costretto a invadere Taiwan qualora dovesse dichiarare ufficialmente la propria indipendenza dalla madrepatria (peraltro già nei fatti), smarcandosi dal principio della «Cina unica» che il Partito comunista insegue sin dalle origini. Per questo il ministro della Difesa cinese Wei Fenghe oggi tuona: «Schiacceremo in modo risoluto qualsiasi tentativo di perseguire l’indipendenza di Taiwan».

Armate a confronto

Sulla carta, lo strapotere del Dragone è evidente e le sue forze armate possono a buon diritto sognare di portare in dote al Partito comunista il cosiddetto «risorgimento della nazione cinese» entro il 2049, anno che segna il centenario della fondazione della Repubblica popolare, con l’annessione dell’isola.

Contro Taiwan, Pechino può schierare la forza marina teoricamente più potente del pianeta: con circa 360 navi da combattimento ha superato negli ultimi anni persino la flotta Usa, che oggi dispone di poco meno di 300 imbarcazioni. Conta 50 fregate, 32 cacciatorpediniere, 60 sottomarini, 21 navi da sbarco e 2 portaerei. L’aviazione è la più grande dell’Asia: nel 2020 impiegava 395 mila unità in servizio attivo per 1.527 aerei da combattimento e 722 da trasporto, cui andrebbero aggiunti altri 290 aerei da caccia in dotazione alla marina, 281 elicotteri da attacco e 985 da trasporto.

La marina di Taiwan, invece, dispone di pochi sottomarini dalla tecnologia datata e una flottiglia di pattugliatori di superficie, inadatti a fermare o anche solo rallentare un tentativo di sbarco. Meglio l’aeronautica che però, con appena 260 aerei da combattimento (F-16, Mirage 2000) e alcuni caccia prodotti internamente, non riuscirebbe a garantire una «bolla difensiva» a lungo termine sopra lo Stretto. Non è dunque sullo scontro aperto in mare o nei cieli che si giocano i destini dell’isola. Piuttosto, nella «war room» di Pechino si ragiona su quanto l’isola sia difendibile. Ed ecco spiegati i frequenti sorvoli di jet cinesi sopra lo spazio aereo taiwanese, che servono a Pechino per monitorare la reale condizione delle difese dell’isola e non certo come mera provocazione.

«A oggi le difese taiwanesi sono basate su forze corazzate, aerei da caccia, grandi quantità di pezzi di artiglieria, letali difese antisbarco con campi minati e bunker. E su difese agevolate dalla topografia dell’isola, in gran parte montuosa, che possiede solo poche spiagge di fronte alle coste cinesi adatte per uno sbarco in forze» osserva Marco Leofrigio della Società italiana di storia militare. Secondo i piani bellici delle forze taiwanesi, per scompaginare le unità da sbarco cinesi potrebbe bastare una difesa a oltranza per mezzo dell’artiglieria pesante: l’isola di Formosa (uno dei vari nomi di Taiwan) dista meno di 180 chilometri dal continente e con i missili di cui dispone Taipei – la cui gittata può raggiungere fino a 1.500 chilometri – a Pechino servirebbero settimane per completare le operazioni di sbarco sotto una pioggia di missili diretta contro la flotta. Batterie di sistemi antinave a corto e medio raggio sono già oggi disseminate nei punti nevralgici della costa prospiciente lo stretto di Taiwan. Fintanto che le difese missilistiche di Taipei non fossero annientate, il problema persisterebbe.

Ecco spiegato il motivo per cui Pechino ha mandato osservatori in Ucraina, dove la battaglia per il Donbass si combatte soprattutto a suon di missili e contraeree. I generali comunisti vogliono capire quanto efficaci siano i sistemi d’arma che l’Occidente ha fornito a Kiev, anche perché del tutto simili a quelli che gli Stati Uniti hanno già dotato Taipei. Quanto al «capitale umano», le forze armate taiwanesi contano su 170 mila soldati e una struttura di riservisti di circa 1,7 milioni di uomini. Mentre Pechino può schierare una forza attiva di oltre 2 milioni di soldati. Utilizzando il rapporto minimo di uno a tre fra difesa e attacco, per completare l’invasione la Cina avrebbe bisogno di trasportare sull’isola oltre 1,2 milioni di militari via nave. Anche in uno scenario in cui vi riuscisse, poi l’esercito cinese dovrebbe affrontare una battaglia terrestre dagli esiti imprevedibili, non essendo ancora stato testato in battaglia. In più, l’intelligence di Pechino ha identificato solo 14 spiagge adatte a uno sbarco, e Taiwan è ben consapevole di quali siano: i suoi ingegneri hanno passato decenni a scavare tunnel e bunker per proteggerle, in quanto l’intera strategia di difesa nazionale di Taiwan si basa proprio sul contrastare un’invasione cinese. Dunque, il livello dello scontro sarebbe il peggiore visto da decenni.

Strategia del porcospino

Quanto al ruolo statunitense, la dottrina di Washington è la medesima adottata per l’invasione russa in Ucraina: il Pentagono intende porre Taiwan nella condizione di potersi difendere da sola, senza dover intervenire scatenando un conflitto su larga scala. È la cosiddetta «strategia del porcospino» come l’ha definita George Friedman, del think tank texano Geopolitical Futures. «Gli aculei di questo agguerrito porcospino sono costituiti dal fitto arsenale di missili, razzi e tantissimi pezzi di artiglieria. Come per i nordcoreani, anche per i taiwanesi il cannone è una delle armi principali» conferma Leofrigio.

Come si può invadere allora l’isola senza essere «trafitti»? Secondo Pechino, è possibile grazie a operazioni progressive che non puntino direttamente alla costa di Formosa, ma in primo luogo agli arcipelaghi di isole minori, come appunto Kinmen, e all’imposizione di una quarantena sull’isola principale attraverso un assedio navale. Ne sono convinti anche Robert Blackwill e Philip Zelikow del Council on Foreign Relations: «Possibili obiettivi potrebbero essere l’isola di Taiping, l’avamposto più lontano di Taiwan nel Mar Cinese Meridionale; la minuscola isola di Pratas, avamposto a 170 miglia nautiche (320 chilometri, ndr) a sud-est di Hong Kong; e ancora proprio le isole Kinmen e Matsu, micro-territori a poche miglia dalla costa della Cina continentale; e Penghu, nello Stretto di Taiwan».

In uno scenario di quarantena, il governo cinese potrebbe effettivamente prendere il controllo dei confini aerei e marittimi di Taiwan. «Ogni aiuto militare statunitensi all’isola potrebbe essere bloccato o confiscato come violazione della sovranità cinese. Nel frattempo, Pechino potrebbe consentire al governo di Taiwan di funzionare normalmente, a eccezione degli affari esteri» è opinione del Council. Questo non solo strangolerebbe Taipei, ma consentirebbe alla Cina di circondare via via tutta l’isola, ostacolando qualsiasi intervento esterno. A quel punto, che cosa sarebbero disposti a fare gli Usa? Al momento, la linea è mantenere lo status quo. Ma lo Stretto di Taiwan è ormai lo snodo geopolitico più importante al mondo. Chi lo controlla, controlla l’intera Asia. E a Washington lo sanno fin troppo bene.

Perché quell’isola può valere una guerra

I cinesi accampano motivazioni storiche mentre per gli americani è un vessillo di democrazia. Ma il vero tesoro di Taiwan sono la sua tecnologia e la posizione strategica per i commerci marittimi.

di Maurizio Tortorella

Per Taiwan si può morire. E lo dicono i numeri. In quell’isola, grande quattro volte la Sicilia, una società realizza da sola il 53 per cento della produzione mondiale di semiconduttori, i microcomponenti dai quali oggi l’industria globale dipende peggio di un neonato dal biberon.

Ma i 51 mila dipendenti della Taiwan Semiconductor manufacturing company, distribuiti in 18 impianti, vantano altri primati planetari nei circuiti integrati e nei «wafer» di silicio, la cui carenza – dovuta agli stop produttivi imposti dal Covid – da due anni rallenta disastrosamente l’economia di mezzo mondo. Messe insieme, poi, tutte le società e le industrie della Repubblica di Cina producono il 70 per cento dei microchip, componenti fondamentali per far funzionare ogni apparecchiatura elettronica esistente sulla faccia della Terra: dai cellulari ai frigoriferi, dai computer alle tv, dalle automobili agli aerei. Ciliegina sulla torta, sempre la Tsmc – assieme alla sudcoreana Samsung – è l’unica società al mondo in grado di fabbricare gli infinitesimali chip da 5 nanometri (5 miliardesimi di metro) che sono il cuore battente delle tecnologie più avanzate.

Tutto questo basta e avanza per descrivere l’importanza strategica di Taiwan, divenuta Stato indipendente nel 1949, alla fine della guerra civile cinese, ma che il regime di Pechino considera da sempre come la sua ventitreesima provincia. Da quando Xi Jinping è salito al potere, nel 2012, le rivendicazioni territoriali della Repubblica popolare sull’isola «ribelle» hanno cominciato progressivamente a crescere di aggressività. Oggi la riunificazione della «Grande Cina» è ai primi posti nel programma del Partito comunista e al centro delle strategie espansionistiche del governo di Xi. Nel luglio 2021, al culmine delle celebrazioni dei 100 anni del Partito e dopo aver vantato dal palco il pieno controllo poliziesco su Hong Kong, il presidente che in sé ha accentrato più potere dittatoriale dopo Mao Zedong ha solennemente dichiarato che «risolvere la questione di Taiwan e realizzare la completa riunificazione della Cina è sempre stata una missione storica, ma adesso deve diventare un impegno incrollabile».

Da allora il suo ministro degli Esteri, Wang Li, non fa altro che ripetere due parole d’ordine: Taiwan è «parte inalienabile» del territorio cinese e «i lati dello Stretto saranno presto una cosa sola». I microchip taiwanesi sono divenuti il primo obiettivo di Pechino da quando è stato chiaro che accelerare nel settore dei semiconduttori è una priorità vitale per ogni economia. Negli ultimi anni, la gara economica e tecnologica con gli Stati Uniti ha accresciuto l’importanza di quei prodotti. Nel 2015, Xi aveva lanciato l’ambizioso piano «Made in China 2025», con l’obiettivo di produrre in patria il 60 per cento dei microchip utilizzati dalle industrie. Ma oggi è chiaro che raggiungere quella quota è impossibile. Per questo, da ultimo, alle rivendicazioni «patriottiche» su Taiwan del Dragone si stanno pericolosamente aggiungendo motivi meno ideali e molto più concreti.

A frenare le mire cinesi, fin qui, è stato esclusivamente l’ombrello militare statunitense, non per nulla ribattezzato «scudo di silicio». Soprattutto a partire dal 1982, sotto l’amministrazione repubblicana di Ronald Reagan, l’America ha fornito imponenti aiuti militari a Taiwan. Washington, del resto, non può certo abbandonare Taipei. Non può farlo, è certo, perché in quel caso la Cina s’impossesserebbe del monopolio globale dei semiconduttori. Ma deve evitarlo a tutti i costi per altri due motivi. Primo perché perderebbe una base strategica che, anche dopo il sorpasso per numero di navi realizzato nel 2020 dalla flotta militare cinese su quella statunitense, continua a garantire all’America una posizione dominante in quell’area del globo.

E poi perché perderebbe il controllo sullo Stretto di Taiwan. I 180 chilometri d’acqua che separano la Cina dall’isola, infatti, sono i più battuti dai flussi commerciali globali: ogni anno più di un terzo delle merci viaggia sulle circa 40 mila navi container che transitano per quel tratto del Mar Cinese meridionale, e il Fondo monetario internazionale stima che quasi due terzi dei commerci internazionali della Repubblica popolare (circa 2.400 miliardi di dollari su oltre 3.600) siano obbligati a passare per quella porzione di oceano Pacifico.

Lo Stretto di Taiwan, insomma, è un collo di bottiglia a dir poco cruciale, nel Mar cinese meridionale, e il suo controllo costituisce un vantaggio strategico inestimabile dal punto di vista militare e commerciale. Gli Stati Uniti non possono assolutamente rischiare di perderlo. Così, quando lo scorso 24 febbraio la Russia ha invaso l’Ucraina, un brivido è corso per le strade di Taipei e lungo le schiene dei suoi governanti, a partire dalla presidente Tsai Ing-wen, ma ha avuto lo stesso effetto tra i funzionari del Pentagono e in tutte le centrali dell’intelligence occidentali. Improvvisamente, lo spettro dell’invasione di Taiwan si è fatto più concreto. Tant’è che alla fine di maggio, visitando il Giappone, Joe Biden ha detto quello che nessun presidente americano aveva mai dichiarato, e cioè che «nel caso di un colpo di mano cinese contro Taipei, gli Stati Uniti si impegneranno direttamente per la sua difesa».

La frase è stata successivamente mitigata dalla diplomazia americana, ma poi, ai primi di giugno, Washington ha ceduto all’isola armi per 120 milioni di dollari: sotto l’amministrazione Biden, questo è il quarto flusso di aiuti, per un valore totale ormai vicino al miliardo. La reazione cinese, ovviamente, è stata durissima. Pechino ha ringhiato che «continuerà ad adottare misure risolutive e forti per difendere la sua sovranità e la sua sicurezza». Le centrali dell’intelligence occidentale sostengono però che Xi e i vertici militari cinesi oggi stiano osservando soprattutto quanto nel frattempo accade sul campo in Ucraina, e stiano valutando la risposta globale all’aggressione militare della Russia.

In un’audizione davanti al Parlamento statunitense Scott Berrier, direttore della Defense intelligence agency, il servizio segreto militare americano, ha detto che «la Cina ancora oggi preferirebbe non usare la forza militare per prendere Taiwan». Ma William Burns, direttore della Cia, ha aggiunto in quella stessa sede che «la minaccia di una presa di potere militare da qui al 2030 rimane acuta», e che «la guerra di Vladimir Putin non ha affatto eroso la determinazione di Xi a prendere il controllo di Taiwan: ha soltanto influenzato i suoi calcoli su come e quando farlo». Insomma, è meglio non abbassare la guardia. E quindi, sì: per Taiwan si può decisamente morire.


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