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Giornalisti o propagandisti? Le ambigue figure legate a Hamas

Giornalisti o propagandisti? Le ambigue figure legate a Hamas

Un’indagine preliminare sull’attacco del 25 agosto 2025 all’Ospedale Nasser di Khan Yunis è stata presentata al Capo di Stato Maggiore Eyal Zamir. Secondo le prime verifiche, le truppe della Brigata Golani hanno colpito una telecamera installata da Hamas nell’area ospedaliera, usata per monitorare i movimenti delle IDF e dirigere azioni terroristiche. L’uso di strutture civili a fini militari era già stato documentato da intelligence e precedenti operazioni.

Il Capo di Stato Maggiore ha precisato che sei tra i morti erano terroristi, incluso uno coinvolto nell’infiltrazione del 7 ottobre, ma ha espresso rammarico per i danni ai civili. Ha inoltre disposto di approfondire le procedure di autorizzazione e le decisioni prese sul campo. Zamir ha ribadito che l’IDF colpisce solo obiettivi militari, denunciando l’impiego da parte di Hamas di siti sensibili per attività terroristiche. L’attacco di lunedì all’ospedale Nasser di Khan Yunis, a Gaza, ha riacceso il dibattito sulla sicurezza dei civili e sul ruolo dei giornalisti in aree di guerra ma chi sono davvero i cosiddetti “giornalisti” che operano nella Striscia e quanto sono indipendenti dalla macchina propagandistica di Hamas?

Emblematico è il caso di Mohammed Salama, corrispondente di Al Jazeera, già noto per i suoi stretti legami con il movimento islamista. In un video registrato il 7 ottobre 2023, durante il devastante attacco contro Israele, lo si sente gridare «Allahu Akbar» dall’interno del territorio israeliano. Pochi mesi dopo, Salama ha documentato con entusiasmo la grottesca cerimonia in cui Hamas ha esposto i corpi della famiglia Bibas, trasformando un crimine in un macabro spettacolo mediatico. Gesti che tradiscono più una militanza che un impegno giornalistico.

Accanto a lui compaiono figure come Muaz Abu Taha, Hussam al-Masri e Hatem Khaled, anch’essi spesso descritti come reporter. Eppure non risultano iscritti al Palestinian Journalists Syndicate né a organizzazioni professionali riconosciute. Il loro nome è legato soprattutto alla diffusione, tra novembre 2024 e luglio 2025, di fotografie false di bambini malnutriti, poi smascherate come manipolazioni. Episodi che dimostrano come, dietro l’apparenza di attività giornalistica, si celasse in realtà un ruolo funzionale alla disinformazione. Ancora più controverso è il profilo di Ahmed Abu Aziz, accreditato come freelance e riconosciuto perfino dal Committee to Protect Journalists (CPJ) e dal sindacato palestinese.

Considerato da molti un cronista indipendente, si è rivelato invece un militante di Hamas. I suoi stessi post social lo descrivono come un combattente, con toni e atteggiamenti lontani anni luce dalla deontologia giornalistica. Una doppia identità che mina la credibilità di chi lo ha riconosciuto come reporter. Infine, c’è la storia di Mariam Abu Dagga, che ha ottenuto grande visibilità internazionale. La sua famiglia, compreso il figlio, ha potuto trasferirsi negli Emirati Arabi Uniti grazie al sostegno diretto di Hamas. Nei suoi post, Abu Dagga adotta senza esitazione la narrativa del movimento: parlando della liberazione di prigionieri israeliani, ha definito l’operazione «la resa del secondo lotto di detenuti da parte della Resistenza palestinese».

Un linguaggio che non lascia spazio a dubbi: chiamare Hamas “resistenza” significa legittimare un’organizzazione terroristica responsabile di massacri e rapimenti. In quelle parole non c’è alcuna compassione per le vittime israeliane, come l’ostaggio Arbel Yehoud, né un riconoscimento del trauma subito. Vi è piuttosto il ribaltamento della realtà, trasformando carnefici in “resistenti”. Quanto avvenuto all’ospedale Nasser rende dunque ancora più urgente distinguere tra veri giornalisti, che rischiano la vita per documentare la realtà, e figure che di fatto agiscono come propagandisti di Hamas. In un contesto dove l’accesso a Gaza per la stampa internazionale è fortemente limitato, il ricorso a corrispondenti locali diventa inevitabile. Ma se questi ultimi non sono indipendenti, l’informazione che ne deriva rischia di essere viziata, parziale e funzionale agli interessi del movimento jihadista.

Questi episodi dimostrano come Hamas utilizzi la dimensione mediatica come arma parallela a quella militare: non solo razzi e tunnel, ma anche immagini, video e terminologie studiate per orientare l’opinione pubblica internazionale, alimentare indignazione selettiva e legittimare le proprie azioni. Dietro il volto di reporter apparentemente neutrali si nasconde spesso un progetto preciso: costruire consenso attorno a Hamas e ridisegnare la percezione di vittime e carnefici. L’attacco all’ospedale di Khan Yunis non solleva quindi solo interrogativi militari e umanitari, ma anche mediatici. Chi racconta questa guerra? E con quali finalità? La risposta, osservando casi come quelli di Salama, Abu Taha, Khaled, al-Masri, Abu Aziz e Abu Dagga, non può che rivelare un dato scomodo: troppi “giornalisti” di Gaza non sono semplici testimoni, ma parte integrante di una macchina di propaganda che sfrutta la guerra delle immagini con la stessa ferocia della guerra delle armi.

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