Pechino vorrebbe scavare un passaggio artificiale attraverso la Thailandia per velocizzare il transito delle sue navi. Ma l’ennesima spinta del Dragone potrebbe scatenare un nuovo risiko militare e trasformare quei mari in un paradiso perduto.
Spiagge orlate di palme, tiepide acque turchesi: è tutto vero l’immaginario che circonda la Thailandia. Un nirvana tropicale che, però, potrebbe subire un brusco risveglio. Il governo di Bangkok è convinto che a Sud, dove il territorio si assottiglia tanto da diventare un istmo largo un centinaio di chilometri (più o meno quanto la Sardegna), si dovrà creare un collegamento diretto tra il mare delle Andamane e il golfo del Siam, ovvero tra Oceano Indiano e Mar Cinese meridionale.
In questo modo le navi di ogni caratura che compongono il fenomenale traffico marittimo dell’area non dovranno più compiere il lungo giro intorno alla penisola malese e poi, via Singapore, entrare nello stretto di Malacca, congestionato da 84.000 mezzi l’anno per un ammontare in merci che arriva al 30% del commercio globale via mare. Bypassarlo ridurrebbe la rotta di 1.100 chilometri.
Vari progetti affollano oggi i tavoli dei ministeri a Bangkok, ma il più clamoroso è quello di un canale artificiale. Un «piccolo Suez», sogno del Paese asiatico nei secoli dei secoli (già nel 1677 re Narai il Grande interrogò l’ingegnere francese de Lamar sulla sua realizzabilità) ma che non si è potuto fare mai. Almeno finché non sono arrivati i cinesi, con le loro ambizioni di potenza mondiale.
Per le navi del Dragone circumnavigare la penisola malese e infilarsi nel budello della Malacca è un problema serio (conosciuto come «the Malacca dilemma»). Troppo tempo perso e troppa vulnerabilità, a transitare da quella strettoia. Da lì passa la maggior parte del petrolio importato dalla Cina (circa 9 milioni di barili al giorno) e da lì devono passare le prue militari desiderose di espandere il potere cinese ben oltre i mari locali. Con l’implementazione della Via della seta marittima la scorciatoia è dunque diventata sempre più preziosa. Così negli anni sono aumentate le pressioni.
«La Cina ha fatto e fa una pesante attività di lobbying sui politici thailandesi per convincerli a portare avanti il progetto del canale» scrive Tilak Devasher, membro del Comitato consultivo per la sicurezza nazionale indiana. Tanto che nel 2015 si è finalmente arrivati a un «memorandum of understanding» su quello che dovrebbe diventare il «canale di Thailandia». Una serie di progetti (in un caso si sfocerebbe nella turistica provincia di Krabi) il più accreditato dei quali conta 128 chilometri di lunghezza (Suez arriva a 192, Panama a 77), 450 metri di larghezza, 25 di profondità. Costo complessivo preventivato 50 miliardi di dollari, ai quali contribuirebbe pesantemente Pechino. Non senza rischi.
«La sovvenzione cinese significherebbe erosione della sovranità per la Thailandia: Pechino è stata spesso incolpata di mettere in atto vere e proprie trappole del debito, con progetti infrastrutturali impossibili da ripagare che finiscono sotto il suo controllo» dice ancora Devasher. «Il canale potrebbe essere uno di questi».
«La Cina fa un gioco molto chiaro» commenta Francesca Manenti, senior analyst del Cesi – Centro studi internazionali. «Oltre che potenza terrestre vuole diventare una potenza marittima, ma per riuscirci deve uscire da quel suo mare che la geografia confina dietro barriere naturali, e arrivare nell’oceano Indiano il più agilmente possibile. Da qui poi raggiungere il Medioriente, l’Africa, il Mediterraneo. Ecco perché ha creato la rete di infrastrutture portuali connesse tra loro in vari Paesi affacciati sull’Oceano Indiano, conosciuta come “Filo di perle”. Ed ecco il perché del suo espansionismo nel Mar Cinese meridionale. A Pechino quel canale serve».
Ma oltre alla geografia fisica esiste un altro fattore che ostacola i piani cinesi. «Se Pechino ha ambizioni da potenza globale, l’India si percepisce come grande potenza regionale e considera il golfo del Bengala un po’ come il giardino di casa» continua Manenti. Un giardino su cui le navi armate cinesi si affacciano sempre più spesso. Un’ulteriore minaccia dall’avversario di tante tensioni lungo i confini terrestri.
Pochi giorni fa l’autorevole rivista statunitense Foreign Policy titolava: Il prossimo fronte nel conflitto tra India e Cina potrebbe essere un canale thailandese. Non un’esagerazione. Il punto caldo è lì, tra Thailandia e stretto di Malacca. È un fatto che il governo di Delhi stia puntando sul rafforzamento delle isole Andamane e delle Nicobare, paradisi di natura pressoché incontaminata che appartengono alla lontanissima India ma dall’importanza strategica enorme: sorgono proprio a ridosso dello stretto. Per questo, ha scritto il quotidiano indiano Hindustan Times citando alti gradi militari, si stanno ampliando e rendendo operative le basi aeronavali in almeno tre isole dei due arcipelaghi remoti, meta di vacanze esotiche ma anche luoghi dove vivono tribù mai entrate in contatto con il mondo esterno.
A Great Nicobar si costruirà un porto tanto imponente da consentire l’attracco dei cargo più ingombranti. E in agosto il primo ministro indiano Narendra Modi ha inaugurato i 2.300 chilometri di cavi sottomarini che vi portano la banda larga fin da Chennai. Delhi si sta preparando a controllare Malacca, come chiedono da tempo i falchi del subcontinente? Il parere di Tilak Devasher è chiaro: «Dovremmo investire ancora di più in infrastrutture militari nella Andamane e Nicobare e non solo per sorvegliare Malacca, ma per raggiungere una potenza aeronavale tale da proiettarci nel Mar Cinese meridionale».
«Una cosa è certa» commenta l’analista del Cesi: «per quanto piccolo, questo quadrante sarà un tassello fondamentale nella partita tra i due giganti, in rapida evoluzione». Nel Sud-est asiatico non sono pochi i Paesi che stanno tornando nell’alveo dell’amicizia con Usa, Giappone, Australia e India per contrastare le vaste ambizioni cinesi. Filippine e Vietnam sembrano aver fatto questa scelta. Anche la Thailandia, che nel 2014 si era avvicinata a Pechino dopo il rifiuto di Washington di riconoscere la giunta militare salita al potere con un colpo di Stato, potrebbe tornare sui suoi passi (in fondo, degli Usa è ufficialmente alleata).
La notizia di pochi giorni fa è che non solo il governo di Bangkok ha deciso di rimandare di un anno l’acquisto di due sofisticati sottomarini cinesi per motivi economici, ma che in attesa di prendere una decisione definitiva sulla scorciatoia del «canale della discordia», sta facendo altri progetti. In una recente intervista il ministro dei trasporti Saksiam Chidchob ha detto che il governo potrebbe costruire due giganteschi porti ai lati dell’istmo e collegarli tra loro con strade e ferrovie: le merci sarebbero scaricate dalle navi, sistemate su camion e treni, infine caricate su altre navi in attesa nel porto opposto.
Una sorta di ponte terrestre che, ha garantito Chidchob, «accorcerebbe di due giorni il trasporto delle merci». Un escamotage per guadagnare comunque denaro, per annullare l’impatto ambientale di escavazioni lunghe 120 chilometri, ma anche per non facilitare la flotta militare di Pechino che dalle basi nel Mar Cinese meridionale si troverebbe in un batter d’occhio nell’Oceano Indiano.
Che cosa sceglierà Bangkok? «L’alternativa fa pensare che il governo thailandese stia prendendo tempo per capire gli equilibri della regione» conclude Manenti. Ma comunque andrà a finire, per queste acque meravigliose non è difficile immaginare un trafficato futuro di portacontainer, petroliere e navi da guerra. In Paradiso si prevedono mari molto mossi.