Le attuali crisi in Russia, Iran e Cina scuotono quest’area strategica dalle fondamenta. E gli Stati Uniti valutano le opzioni che più convengono.
Il sostegno occidentale alle numerose rivolte che attraversano l’Eurasia – l’area continentale comprende il nostro continente e quello asiatico – è finora piuttosto tiepido. Sul piano strategico, è un «pop corn moment», una parentesi di trepidante attesa per capire come si disporranno le pedine sulla scacchiera. È ancora troppo presto per dire se Joe Biden sia in preda alla sindrome di Adriano, se voglia cioè asserragliare l’Occidente e i suoi partner in una metaforica cinta muraria come l’imperatore romano, oppure stia pragmaticamente valutando il da farsi. Procediamo per gradi.
Punto primo. Il blocco autoritario eurasiatico vive una fase di grande debolezza. La Russia non sta vincendo la guerra con l’Ucraina, anzi. All’umiliazione della perdita di status si associa l’affrancamento dei tradizionali vassalli della federazione tra gli alleati del Caucaso che ora rifiutano platealmente la primazia di Mosca. Se sull’orlo esterno le cose vanno male, a Mosca non vanno meglio: sotto le torri del Cremlino è ormai guerra per bande. C’è dell’altro: le ambizioni di grosse fazioni armate – i ceceni di Ramzan Kadyrov, i mercenari di Evgenij Prigožin – possono, se non governate, condurre a una balcanizzazione della Russia.
La Cina, per parte sua, è alle prese con una offensiva economica sempre più aspra da parte degli Usa, che non intendono lasciarle il primato tecnologico e premono con forza tramite sanzioni su semiconduttori, intelligenza artificiale e computer quantistici. Alla crescente conflittualità con Washington in settori-chiave si aggiungono le evidenti difficoltà sul fronte interno, con una popolazione ormai insofferente rispetto all’interminabile politica di confinamento domestico. L’Iran, infine, vede una micidiale combinazione tra la rabbia delle fasce giovani della popolazione e le istanze di diversi gruppi etnici minoritari ma rilevanti.
Punto secondo. L’Occidente non sta approfittando della debolezza eurasiatica. I cinesi lamentano influenze esterne dietro alle manifestazioni contro l’oppressività del regime, ma allo stato attuale constano pochissime dichiarazioni di sostegno da parte di leader occidentali. Anche i paladini dei diritti civili, come il ministro degli Esteri tedesco Annalena Baerbock, appaiono più taciturni del solito. Nelle capitali del Vecchio continente, poi, non ci sono manifestazioni di solidarietà. Anche gli iraniani denunciano una regia occidentale dietro alle minoranze – curdi, baluci, azeri – che si rivoltano contro la teocrazia sciita. L’impressione, tuttavia, è che da parte americana non ci sia la volontà di premere più di tanto l’acceleratore. Una (non piccola) eccezione è rappresentata dalla Turchia, che si muove piuttosto dinamicamente nel Caucaso.
Punto terzo. Tipicamente, i falchi temono che la rinuncia ad approfittare della debolezza del nemico sia profezia di «asserragliamento» e, dunque, di rovina. Fa loro paura la sindrome di Adriano, il condottiero del secondo secolo dopo Cristo passato alla storia per la fortificazione del limes e la scelta di non spingere più in là l’impero romano. Non è detto, però, che Biden simpatizzi con quell’antico imperatore e le sue idee, né che abbia deciso di gettare la spugna. La strategia di stritolamento della Cina in atto sul fronte economico contraddice questo ragionamento. Può darsi, piuttosto, che la crisi in Eurasia al momento gli basti, perché accelera il ritiro delle imprese occidentali dalla Cina e compatta il fronte occidentale. Il presidente Usa, in altre parole, sembra avere soprattutto in mente una nuova «Yalta», una spartizione netta per aree di influenza. Questa tendenza è peraltro già in parte riconoscibile all’ultimo vertice G20 di Bali, in cui i leader presenti sono intervenuti soprattutto a uso e consumo di platee domestiche.
Quarto punto e ultimo. La crisi politica accelerata dell’Eurasia fa paura. La sua implosione repentina sarebbe un evento del tutto inedito, e per questo uno scenario esaminato con grande attenzione nelle cancellerie occidentali. Il crollo dell’Unione sovietica, trent’anni fa, non può infatti valere come termine di paragone: l’Urss era priva di interconnessioni con l’Occidente, mentre l’attuale blocco eurasiatico – Cina in primis – è ancora molto collegato al resto del mondo per scambi e investimenti diretti. Il nazionalismo cinese, tuttavia, si fa sempre più accentuato, e la tendenza all’autarchia è già visibile nella dottrina strategica cinese della «Dual Circulation Strategy». Il momento della resa dei conti ci sarà, ma sarà differito nel tempo. n
FRancesco Galietti è esperto di scenari strategici, fondatore di Policy Sonar
