Nuovi missili per testate nucleari intercontinentali, una marina che conta numerosissime unità, una capacità offensiva che si sta allargando all’intero Pacifico. Pechino punta alla supremazia bellica, soprattutto ora che la pandemia ha assorbito le energie dell’Occidente. Gli Stati Uniti se ne sono accorti, ma le reazioni rischiano di arrivare già in ritardo.
L’allarme, a Washington, è diventato assordante. Nell’ultimo Annual threat assessment, il rapporto riservato che ogni 12 mesi la Cia consegna al Senato per segnalare quali siano le principali «minacce» alla sicurezza degli Stati Uniti, la parola «Cina» compare 53 volte in 27 pagine. Pechino, in effetti, fa sempre più paura. E non soltanto per le continue minacce a Taiwan, o per le crescenti rivendicazioni territoriali sulle isole Senkaku, che fanno parte del Giappone, o per l’intensificazione dei rapporti con la Russia e lo sviluppo della sua influenza sull’Africa. La Cina fa paura anche e soprattutto per l’imponente crescita del suo potenziale bellico.
Nel recente rapporto, indirizzato a Capitol Hill, si legge che «l’Esercito popolare di liberazione sta costruendo una forza missilistica nucleare imponente e sempre più diversificata, con vettori progettati per gestire l’escalation in ambito regionale e per garantire una capacità intercontinentale di secondo colpo». Questo vuol dire che oggi i missili di Pechino sono già in grado di colpire direttamente gli Stati Uniti, se mai Washington decidesse la rappresaglia dopo un attacco cinese contro un suo alleato: per l’appunto Taiwan, o il Giappone. «Ormai» continua il rapporto «la marina e l’aeronautica cinesi sono le più grandi della regione e continuano a dislocare sistemi missilistici a raggio corto, medio e intermedio, in grado di colpire tutte le basi statunitensi e alleate nell’area».
Il Pentagono, in effetti, è sotto choc da fine gennaio, quando la portaerei Theodore Roosevelt ha fatto il suo ingresso nel Mar cinese meridionale, a sud di Taiwan, per le solite operazioni di routine. Dalle basi costiere cinesi sono immediatamente decollati 13 aerei da guerra, tra cui otto grossi bombardieri H-6K, in grado di lanciare ordigni nucleari e ognuno capace di trasportare ben 48 missili antinave. Lo stormo non soltanto ha violato lo spazio aereo di Taipei, come ormai accade quasi ogni giorno, ma per la prima volta nella storia ha messo la portaerei statunitense nel mirino dei radar e l’ha baldanzosamente utilizzata come bersaglio simulato.
Mentre l’inedita «esercitazione sul campo» andava in scena, nelle stesse acque faceva ingresso una delle principali portaerei cinesi, la Shandong, 320 metri per 2 mila uomini d’equipaggio. L’indomani, l’operazione congiunta è stata celebrata con particolare enfasi dal Global Times, il quotidiano in lingua inglese del Partito comunista cinese, considerato come il megafono di Xi Jinping: «I nostri aerei e la nostra marina ormai possono lanciare un attacco a qualsiasi portaerei ostile» ha scritto il giornale. «E questo dev’essere un forte deterrente contro le provocazioni degli Stati Uniti».
Viene in mente quanto lo stesso giornale annunciava in uno sconcertante editoriale lo scorso 11 settembre, non a caso data-simbolo per Washington. Sotto il titolo «China must be militarily and morally ready for a potential war» («La Cina deve prepararsi militarmente e a livello morale per una guerra»), il tabloid scriveva che «la Repubblica popolare deve avere il coraggio d’impegnarsi con calma in una guerra tesa a proteggere i suoi interessi fondamentali, e deve essere pronta a sostenerne il costo».
Tra fine 2020 e inizio 2021, evidentemente, la crisi globale causata dal Covid ha impresso ancora più forza a questi ragionamenti. Del resto, mentre per oltre un anno le economie occidentali hanno arrancato sotto i colpi della recessione imposta dalla pandemia, Pechino ha continuato a crescere. Nel 2020 il Prodotto interno lordo cinese è stato l’unico al mondo ad aumentare, segnando un +2,3 per cento, e si prevede che quest’anno salirà ancora dell’8,4 per cento.
Così la spesa cinese per armamenti, che nel 2020 secondo lo Stockholm international peace research institute (Sipri) era cresciuta dell’1,9 per cento, nel 2021 dovrebbe impennarsi addirittura del 6,8 per cento e superare la cifra record di 261 miliardi di dollari. È una potente spinta alla modernizzazione di tutti i settori dell’esercito, ma gli americani sembrano preoccupati soprattutto dalle novità in campo missilistico. Punta di diamante dell’arsenale cinese è il vettore DF-17 (DF sta per Dong Feng, cioè «vento dell’Est»), esibito la prima volta al mondo durante l’impressionante parata militare che nel 2019 ha celebrato il settantesimo anniversario della Repubblica popolare. Il DF-17 è un vettore balistico a planata ipersonica, cioè un missile che esce dall’atmosfera per poi farvi rientro acquisendo altissime velocità. Supera infatti i 6 mila chilometri all’ora, senza mai perdere manovrabilità, e ha una gittata che si stima possa superare i 2.500 chilometri. È già in dotazione alle brigate missilistiche della provincia di Guangdong, proprio di fronte a Taiwan.
Può trasportare testate sia convenzionali sia nucleari e, soprattutto, pare sia capace di colpire un obiettivo con una precisione impressionante, errori di pochi metri. Non per nulla, gli esperti della Nato considerano il DF-17 come «una delle tecnologie che rivoluzioneranno il modo di fare la guerra». Un missile ancora più recente, ma di cui si sa poco, è il DF-41: è un vettore balistico intercontinentale che raggiunge i 14 mila chilometri all’ora e potrebbe colpire Europa e Stati Uniti in 30 minuti, trasportando fino a dieci testate, convenzionali o nucleari.
I missili, va detto, sono il piatto forte della propaganda di Pechino, che ormai pende verso un bellicismo dai toni preoccupanti. In un tweet pubblicato a metà maggio, il direttore di Global Times Hu Xijin ha minacciato addirittura l’Australia, il cui Parlamento ha deciso di accrescere la spesa militare in diretta conseguenza all’escalation cinese: «Vi preparate alla guerra?», ha avvertito Xijin, «Bene, allora costruite un sistema antimissile».
Insieme ai missili, l’altro arsenale destinato all’espansione è quello nucleare. Secondo il Sipri di Stoccolma, oggi la Repubblica popolare dispone ufficialmente di circa 320 testate nucleari. Obiettivamente poca cosa contro le 6.300 della Russia e le 5.800 degli Stati Uniti. Ma l’opacità di Pechino è impenetrabile, e nessuno sa quante siano davvero. Alla fine dello scorso aprile l’ammiraglio Charles Richard, comandante dello Strategic command Usa, ha dichiarato che «la politica della Cina in campo nucleare è molto opaca», tanto da rendere «difficile determinarne le intenzioni». Nel giugno 2020, in piena pandemia, il solito Xijin invitava comunque i vertici militari ad «aumentare a mille il numero di testate nucleari, e arrivare almeno a 100 DF-41».
Certo, se Pechino dovesse mai realizzare in campo missilistico e nucleare la stessa impennata produttiva che ha compiuto tra il 2015 e il 2020 per la sua flotta, le roboanti richieste di Xijin verrebbero superate d’impeto. Sei anni fa Xi Jinping aveva posto come obiettivo quello di sviluppare la flotta, che allora disponeva di 255 navi. Oggi la flotta cinese dispone di almeno 360 tra portaerei, incrociatori, sottomarini e altri tipi di navi
Ed è diventata la prima al mondo: a sorpresa, ha surclassato gli Stati Uniti, che di navi ne hanno 297, e nel 2022 prevede di arrivare a 400. In un preoccupato rapporto, steso ormai un anno fa, il ministro uscente della Marina militare, Kenneth Braithwaite, segnalava che l’aggressività cinese in campo navale «cresce in modo preoccupante e con strumenti tecnologicamente sofisticati». Come si vede, gli allarmi suonano, a Washington. Ma purtroppo a vuoto.
