Ecco come e perché Washington sta «riconquistando» Paesi-chiave considerati irrecuperabili. In netto contrasto con Mosca (e Cina).
Radicandosi nel Caucaso, l’America consolida la sua azione di «flipping», cioè ribaltamento dei rapporti con Paesi-chiave considerati irrecuperabili. Egitto, India, Cipro e, più di recente, l’Armenia, sono i pezzi di un vasto mosaico strategico statunitense. Ecco perché. L’Egitto, che con Nasser e Sadat rimase a lungo nella sfera di influenza sovietica, è forse il primo esempio di questo sforzo insistito. Dal punto di vista di Washington, che peraltro aveva fatto di tutto per affossare il ruolo inglese e francese all’ombra delle piramidi all’indomani della Seconda guerra mondiale, l’Egitto andava recuperato. Era infatti impensabile lasciare uno snodo globale del commercio – il Canale di Suez – in mano ai sovietici, e ancora meno consentire che i rapporti tra il Cairo e Israele si deteriorassero oltre il punto di non ritorno. Alla «riconquista» dell’Egitto si dedicarono così tre amministrazioni presidenziali (Nixon, Ford, Carter), per non parlare di Henry Kissinger, che di questa operazione fu il regista.
Quanto a Cipro, in passato l’isola costituiva un’autentica roccaforte di Mosca. Centrale di riciclaggio per denaro russo e porto di approdo per innumerevoli imbarcazioni battenti bandiera russa, Cipro è stata a lungo una spina nel fianco per gli americani. Ci volle la determinazione e la non comune dose di Realpolitik del segretario di Stato Mike Pompeo per far cambiare rotta ai vertici ciprioti, ma finora lo sforzo è stato ripagato. A marzo dello scorso anno la svolta è stata chiara. È accaduto infatti che cinque navi da guerra russa si si sono viste negare dalle autorità dell’isola mediterranea il permesso di attraccare e fare rifornimento di carburante nel porto di Limassol.
Ancora: l’India, da sempre in buoni rapporti con Mosca, si è affermata come leader del G20 opponendo una risposta molto netta alla Cina. New Delhi è infatti al centro di una articolata strategia di connettività – il «corridoio» Imec, indo-arabo-mediterraneo – che punta a scardinare le Vie della Seta cinesi. Passa dall’India anche il rapporto con le potenze del Golfo, che si credevano irretite dalla Cina, mentre così non è. Gli accordi indo-statunitensi che concedono alla marina americana l’uso delle basi navali negli arcipelaghi di Andamane e Nicobare, infine, confermano la centralità del Subcontinente nella strategia di «cinturamento» della Cina alla quale non è consentito di divenire potenza «deep water», ovvero con forti ambizioni oltre i confini oceanici.
Non banale appare la ricerca di profondità strategica nel Caucaso da parte degli americani. Nel maggio del 1920 il presidente Usa Woodrow Wilson si vide bocciata dal Senato Usa la proposta di mettere l’Armenia sotto tutela americana nell’ambito di un mandato della Società delle nazioni (l’antenato dell’Onu). Gradualmente, l’Armenia scivolò tra le braccia della Russia. Appena un secolo dopo, i soldati americani sono in Armenia. Sono lì per condurre esercitazioni congiunte con i reparti speciali del Paese, negli stessi giorni e nelle stesse ore in cui gli azeri sferrano un’offensiva contro il Nagorno-Karabakh e il presidente turco Erdogan all’assemblea generale dell’Onu chiede l’apertura del cosiddetto «corridoio di Zanzegur». Quest’ultimo sarebbe un collegamento tra l’Azerbaigian continentale e Nakhchivan, «exclave» azera situata all’intersezione tra Armenia, Turchia e Iran.
L’apertura di tale corridoio a scapito dell’integrità territoriale armena offrirebbe all’Azerbaigian libero accesso a Nakhchivan attraverso Syunik (provincia meridionale dell’Armenia), il cui nome turco è proprio «Zangezur». Tale collegamento sarebbe anche strategico per la Russia: le permetterebbe di eludere sanzioni e blocchi sui transiti, raggiungendo via terra i porti mediterranei della Turchia. Si tratterebbe, insomma, di un ménage à trois tra Vladimir Putin, Recep Tayyp Erdogan e l’azero Ilham Aliyev. I russi, vedendo le esercitazioni armeno-americane, da subito non hanno lesinato minacce all’indirizzo del primo ministro armeno Nikol Pashinyan.
Ma all’orrore dei russi nel ritrovarsi ancora una volta gli americani nel proprio vicinato prossimo fa da contraltare l’amarezza degli armeni, a più riprese abbandonati da Mosca. Il «regime change», che rimane la prima opzione di Putin per riportare all’ordine gli alleati renitenti, si rivela infatti un’opzione complicata. La presenza Usa in divisa e armati nel Paese lo sconsiglia, le dimensioni imponenti dell’ambasciata americana a Erevan anche. Il segnale è chiaro: l’America è tornata nel Caucaso, e non intende andarsene.
L’autore, Francesco Galietti, è esperto di scenari strategici, fondatore di Policy Sonar
