La questione sollevata in Parlamento dal consigliere nazionale Lorenzo Quadri non riguarda soltanto il profilo controverso di una relatrice delle Nazioni Unite. Tocca invece un terreno ancora più sensibile: la tutela della libertà di stampa, il rispetto delle regole multilaterali e il ruolo della Svizzera come garante di equilibri istituzionali. È in questo quadro che l’interpellanza indirizzata al Consiglio federale assume un peso politico che va ben oltre il caso Francesca Albanese. La relatrice speciale ONU sui territori palestinesi è infatti da tempo oggetto di dure critiche non solo per le sue posizioni pubbliche, giudicate da numerosi osservatori apertamente militanti, ma anche per atteggiamenti e dichiarazioni ritenuti incompatibili con il mandato di imparzialità imposto ai consulenti delle Nazioni Unite. Tra gli episodi più gravi figura il riferimento all’assalto alla redazione torinese de La Stampa, compiuto da gruppi organizzati filo-Palestina, che Albanese ha descritto come «un monito per i giornalisti». Una frase che, per molti, suona non come una condanna delle intimidazioni, ma come una legittimazione implicita della pressione e della minaccia nei confronti della stampa.
In un contesto europeo già segnato da crescenti tensioni e da un clima di aggressività verso i media, parole di questo tipo assumono un significato preciso. Non provengono da un attivista o da un commentatore politico, ma da una figura che parla a nome dell’ONU. E proprio per questo generano un allarme istituzionale: un relatore per i diritti umani che non difende esplicitamente i giornalisti intimiditi, ma interpreta la violenza come un avvertimento, mina alla radice il principio stesso della libertà di informazione. Questi elementi sono stati richiamati anche nel dossier trasmesso da UN Watch ai vertici delle Nazioni Unite, nel quale si documentano presunte violazioni ripetute del codice di condotta durante il precedente mandato. Secondo le regole interne dell’ONU, segnalazioni di questo livello avrebbero imposto l’apertura di una verifica formale prima di procedere con il rinnovo dell’incarico.
Ed è qui che entra in gioco il ruolo dell’ambasciatore svizzero Jürg Lauber, presidente del Consiglio ONU per i diritti umani. Secondo ricostruzioni giornalistiche, le contestazioni non sarebbero state trasmesse all’organo competente, in contrasto con le procedure previste e con il Manuale delle Procedure Speciali. Se confermata, questa scelta configurerebbe una forzatura istituzionale, con implicazioni dirette per la Svizzera. Non si tratta di un dettaglio tecnico. La Svizzera costruisce la propria influenza internazionale sulla credibilità delle sue istituzioni, sulla neutralità e sull’aderenza rigorosa alle regole. Un coinvolgimento, diretto o indiretto, in un rinnovo contestato — soprattutto quando sullo sfondo vi sono accuse di tolleranza verso intimidazioni ai giornalisti — rischia di indebolire seriamente questa immagine.
È per questo che l’interpellanza di Lorenzo Quadri insiste su un punto centrale: la responsabilità politica del Consiglio federale. Qual è la valutazione del DFAE rispetto alle accuse mosse all’operato dell’ambasciatore Lauber? Il governo riconosce che un simile scenario, se accertato, danneggerebbe la reputazione internazionale della Confederazione? E quali misure intende assumere qualora emergesse una violazione delle procedure? In gioco non c’è soltanto una nomina controversa. C’è la coerenza della Svizzera nel difendere i diritti fondamentali, compresa la libertà di stampa, e nel garantire che i propri rappresentanti nelle sedi ONU agiscano nel rispetto delle regole e dei valori che il Paese dichiara di promuovere. L’interpellanza non è dunque un atto formale, ma uno strumento di pressione politica che costringe il governo a pronunciarsi su un tema cruciale: se la Svizzera intenda continuare a essere percepita come un arbitro credibile o se sia disposta a tollerare ambiguità quando queste coinvolgono figure di primo piano. In un’epoca in cui i giornalisti sono sempre più spesso bersaglio di intimidazioni e violenze, il silenzio o l’ambiguità non sono opzioni neutrali. E proprio su questa linea di confine — tra regole, libertà fondamentali e credibilità internazionale — il Consiglio federale è ora chiamato a rispondere.
