Il raid, ordinato da Joe Biden giovedì scorso in Siria, ha creato non poche tensioni in seno all’agone politico americano. Tensioni di natura trasversale.
Tra i principali critici, si trova il senatore repubblicano del Kentucky, Rand Paul, che – storicamente di orientamento libertario – si è sempre detto contrario all’interventismo militare in politica estera. Eppure, la situazione più interessante è quella che si registra all’interno dello stesso Partito democratico, in cui vari settori hanno espresso fastidio e scetticismo verso la mossa del neo presidente. In particolare, sono state avanzate delle riserve sulla legalità dei bombardamenti che, secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani, avrebbero ucciso 22 persone.
L’aspetto significativo è che questo tipo di remore non siano state espresse soltanto dai rappresentanti della sinistra (come, per esempio, i deputati Ilhan Omar e Ro Khanna): quei rappresentanti che, per intenderci, hanno sempre criticato l’interventismo militare all’estero e, più in generale, le cosiddette “guerre senza fine”. No, a esprimere critiche sono stati anche alcuni esponenti più vicini all’establishment dell’asinello, come il senatore della Virginia (oltre che candidato alla vicepresidenza nel 2016 a fianco di Hillary Clinton), Tim Kaine. Insomma, su questa questione l’opposizione interna si è espansa significativamente. E, in tal senso, la politica estera rischia adesso di costituire un ulteriore fronte di divisione in seno all’asinello (insieme ad altri dossier spinosi come, per esempio, l’aumento del salario minimo e il debito studentesco).
Tuttavia, al di là delle tensioni intestine, qual è esattamente la situazione per quanto riguarda la legalità di questa tipologia di attacchi militari? Si tratta di una questione complessa e non poco aggrovigliata. Cominciamo col dire che l’amministrazione Biden, nel definire l’attacco di giovedì una ritorsione contro due gruppi appoggiati dall’Iran, abbia giustificato il raid, appellandosi all’articolo II della Costituzione americana (che definisce il presidente come “comandante in capo”) e allo Statuto delle Nazioni Unite (che riconosce agli Stati il diritto all’autodifesa). Il punto è che svariati parlamentari democratici sostengono che non vi siano state autorizzazioni, da parte del Congresso, per agire militarmente in Siria.
Questa tipologia di interventi bellici viene infatti generalmente giustificata facendo appello a due provvedimenti: l’Authorization for use of military force (Aumf) del 2001 (che era rivolta contro i responsabili degli attacchi terroristici dell’11 settembre) e l’Authorization for use of military force del 2002 (che autorizzava le operazioni militari in Iraq). In particolare, Cnn ha riferito che l’Aumf del 2001 abbia costituito la principale (e controversa) base legale per gli interventi bellici autorizzati dai presidenti americani negli ultimi vent’anni anni in varie aree del globo (dal Medio Oriente all’Africa). Donald Trump l’ha per esempio invocata per i bombardamenti contro l’Isis, mentre Barack Obama e George W. Bush vi hanno fatto rispettivamente ricorso diciannove e diciotto volte. Non a caso, nel corso degli anni, alcuni parlamentari hanno provato ad abolire questo provvedimento, ma senza successo.
Un problema similare a quello affrontato adesso da Biden riguardò lo stesso Trump, quando – nell’aprile del 2017 – ordinò un attacco contro la base aerea di Shayrat, appartenente al governo siriano. Ci fu chi difese quell’atto sulla base dell’Aumf 2001 e chi – al contrario – sostenne che il Congresso non avesse mai autorizzato interventi di alcun tipo in territorio siriano. La stessa attuale portavoce della Casa Bianca, Jen Psaki, espresse all’epoca disappunto verso Trump su Twitter, dichiarando: “Qual è […] l’autorità legale per i bombardamenti? Assad è un brutale dittatore. Ma la Siria è un paese sovrano”. Non a caso, quel tweet – risalente all’aprile del 2017 – è stato ripescato e citato polemicamente dalla stessa Ilhan Omar che, come abbiamo visto, figura tra le principali oppositrici della mossa del neo presidente. In effetti, va detto che, applicando la logica adottata quattro anni fa dalla Psaki, il recente attacco militare di Biden non dovrebbe risultare legalmente giustificato: non solo Assad è infatti ancora al potere, ma la Siria continua tra l’altro ad essere uno Stato sovrano.
Al di là dei paradossi (e di un certo doppiopesismo) alcune questioni restano irrisolte anche per quanto riguarda le uccisioni mirate. E’ altamente probabile che, nell’eliminazione di Osama bin Laden (avvenuta nel 2011) e di Abu Bakr al Baghdadi (avvenuta nel 2019), sia stata invocata (rispettivamente da Obama e da Trump) l’Aumf del 2001. D’altronde, fu proprio l’amministrazione Obama a sostenere la legittimità del ricorso all’Aumf del 2001 per contrastare l’Isis, che – pur attivo soltanto dal 2013 – l’allora presidente democratico definiva una “forza associata” ad al Qaida. Tesi, quest’ultima, che suscitò dibattiti e controversie. Controversa risultò infine anche l’uccisione del generale iraniano Qasem Soleimani, avvenuta – su ordine di Trump – nel gennaio del 2020. In quel caso, l’allora consigliere per la sicurezza nazionale, Robert O’ Brien, invocò l’articolo II della Costituzione e l’Aumf del 2002 (ricordiamo difatti che Soleimani fu ucciso a Baghdad, in Iraq). Ne scaturirono polemiche, con il Congresso che approvò una risoluzione per costringere la Casa Bianca a chiedere l’approvazione parlamentare, prima di eventuali azioni belliche contro l’Iran: una risoluzione su cui tuttavia Trump, lo scorso maggio, pose il veto.
