Home » Attualità » Esteri » Beirut tre mesi dopo: come si uccide una città

Beirut tre mesi dopo: come si uccide una città

Beirut tre mesi dopo: come si uccide una città

A quasi 100 giorni dall’esplosione che ha spazzato via 85.000 case, con il ritorno politico di Saad Hariri, la capitale resta soffocata da macerie reali, disoccupazione e pandemia. E non riesce più a immaginare un futuro.


La nostra inviata a Beirut, Chiara Clausi, ci racconta la vita della capitale libanese dopo la tremenda esplosione di un mese fa
0 seconds of 1 minute, 9 secondsVolume 90%
Press shift question mark to access a list of keyboard shortcuts
00:00
01:09
01:09
 



Mar Mikhael è irriconoscibile. L’epicentro della movida di Beirut, dei sabati sera scatenati, scanditi da happy hour, file di macchine, giovani che facevano lo struscio. A due mesi dall’esplosione del 4 agosto, il quartiere è un cumulo di macerie. Palazzi sventrati, montagne di detriti agli angoli delle strade, ruspe, militari che ancora pattugliano le strade. E la capitale più libera e libertina del Medio Oriente è morta. Sul porto, il luogo della devastante doppia deflagrazione, resta una bandiera con il cedro verde del Libano e lo scheletro degli edifici dove una volta c’erano i magazzini. Poi ancora rovine.

Un colpo al cuore, feroce. Sulla strada di fronte al luogo del disastro si legge su un cartellone: «We love you Beirut and we are standing with you», ti amiamo Beirut e rimarremo con te. Ma alle spalle si affaccia l’incubo. L’esplosione è stata il colpo di grazia a un Paese già in ginocchio, la concretizzazione dei conflitti che lo dividono – e spesso l’hanno dilaniato – dalla sua nascita. Poco più su, nel quartiere cristiano di Achrafieh dove vive la borghesia francofona, il silenzio è spettrale.

A sera le luci sono spente, le strade vuote. I palazzi ultramoderni di vetro e cemento e le case tradizionali in stile ottomano, con le vetrate colorate e il tipico triplo arco sulla facciata, le splendide ville nei sontuosi giardini, dai pavimenti in marmi intarsiati, sembrano fantasmi nel buio. Il palazzo Sursock, sede del più famoso museo d’arte libanese, è a pezzi. E il caffè frequentato la domenica dagli «expat» di tutto il mondo rimarrà chiuso fino a fine anno, complice anche la pandemia.

Il Paese ha toccato il fondo di una crisi economica che viene da lontano. Il crollo vertiginoso della lira, svalutata del 75%; le banche chiuse che non danno più dollari; lo stipendio medio di un milione di lire che, convertito ufficialmente ammontava a circa 600 dollari, nel cambio al nero è crollato a 150.

Da Sursock, immerso in un giardino di palme, ibiscus e bouganvillea, si scendono le scale di Mar Elias per arrivare a Gemmayze, la zona di tendenza con caffè in stile newyorkese e gallerie d’arte. Prima del disastro era affollato da street-artist che hanno colorato le mura della scalinata. Adesso c’è la mostra temporanea Beirut, The immortal. Un omaggio alle vittime dell’esplosione, che si immagina spediscano lettere per chiedere verità. Colpisce particolarmente quella di un ragazzo siriano. Per un’ora di straordinario, pagato 5.000 lire, meno di un dollaro, è rimasto nel porto ed è morto quel 4 agosto. Nella tasca dei pantaloni sono stati ritrovati cinque biglietti da mille lire, stropicciati. Il 45% dei libanesi vive sotto la soglia di povertà, il 22 in indigenza estrema.

Alla fine della gradinata ci si imbatte nel ristorante italiano Il Bavaglino. Azzam, 50 anni, italo-libanese, è lo chef e non ha dubbi. «Il Libano è finito» dice lo chef, che come gli altri intervistati preferisce omettere il suo cognome. «L’economia di Beirut si basava soprattutto sulle attività del porto. Poi, ora, c’è anche il problema del coronavirus». I casi sono alle stelle, 1.500 al giorno, su una popolazione di 6,8 milioni, poco più del Lazio. Il governo ha ordinato il lockdown per 169 villaggi e la chiusura dei bar e dei nightclub: «Purtroppo nei villaggi non rispettano le regole. Per loro è importante baciarsi, abbracciarsi, stare insieme. Molti non credono che il virus esista, ma sia un’invenzione del governo per impedire nuove manifestazioni».

La strada principale di Gemmayze, Rue Gouraud, è pattugliata dai militari con mitragliatori a tracolla, perché qui gli scippi sono frequenti. È occupata da operai e ruspe che lavorano per riparare i danni. Il famoso bistrot Couqley è distrutto, come il caffè-libreria Alya’s book. Anass, 28 anni, libano-brasiliano, è il gestore di Lost, un angolo di Parigi a Beirut. «Il governo sta giocando con le nostre vite» dice. «Siccome qui non esistono tasse, non ci sono servizi. Poi il Libano è uno stato multireligioso, per questo la rivoluzione non ha funzionato. Io tra 20 giorni mi trasferirò a Parigi. Mi sento come sul Titanic».

L’iperinflazione e la carenza di beni di prima necessità danno la sensazione che la storia si ripeta. E ritornano i ricordi e la paura della guerra civile, durata fino al 1990, quando si moriva sotto i colpi dei cecchini andando a fare la spesa. Anche l’illustre teatro di Gemmayze è chiuso. È stato invece tra i primi a riaprire il caffè Paul di fronte alla moschea Mohammad Al-Amin. David, 40enne lavora lì vicino. È proprietario di un lounge bar, Spicy n° 7. «Non cercano una soluzione perché non vogliono restituire quello che hanno rubato» taglia corto. La crisi è abissale. Circa un terzo dei dipendenti nei settori privati ha perso il lavoro nel 2019, dall’anno scorso un’azienda su cinque ha chiuso. Poi ci sono i giovanissimi come Rim, 20 anni, infermeria. «Vorrei andarmene ma non ho i soldi». O Varouj, 18 anni, che lavora per una società tedesca. «Il Libano è fucked! Siamo in trappola». Il 78% dei giovani – registrano i sondaggi – vuole emigrare.

Si sentono in trappola, perché sul piano istituzionale sembra che nulla possa cambiare. Saad Hariri ha rilanciato la sua candidatura a premier, a poco meno di un anno dalle dimissioni seguite alla «rivoluzione», e il 22 ottobre ha ricevuto dal presidente libanese Michel Aoun l’incarico di formare il nuovo governo. Incroci politici quasi incomprensibili a un occidentale, che tante tragedie hanno provocato nel Paese.

Hezbollah e Amal, i principali raggruppamenti sciiti e la maggior parte dei sunniti spingevano per Hariri. Mentre il più importante partito cristiano – il Movimento patriottico libero – aveva ritirato l’appoggio alla candidatura. È arrivata anche la sentenza per l’omicidio di Rafik Hariri, il padre di Saad, con la condanna in contumacia di un membro di Hezbollah mai arrestato dallo Stato libanese.

La piazza e le capitali straniere, a parte Parigi, erano contrarie al ritorno di Saad Hariri. Il giorno dopo l’esplosione, l’ex premier aveva detto: «Hanno ucciso Beirut»; ma ora, secondo molti, il suo rientro potrebbe essere fatale per il Libano. La sua «ridiscesa in campo» è stata segnata da un’ennesima esplosione: il 10 ottobre un camion cisterna è saltato in aria nel quartiere Tariq-al-Jdide. Quattro vittime. Anche il 10 settembre la capitale era tornata a bruciare: un incendio tra le macerie del porto. E il 22 settembre era toccato al villaggio di Ain Qana. A prendere fuoco un magazzino di armi di Hezbollah. Le voci si rincorrono. C’è chi parla di incidenti, chi di sabotaggi.

I servizi pubblici sono allo sbando, Beirut rischia di essere sommersa dall’immondizia. Le discariche sono stracolme, in strada c’è un odore insopportabile che «amplifica» quello delle fognature rotte. Non bastasse, le spettacolari foreste del Nord, del Sud e dello Chouf – riserve di cedri e colline verdi – sono bruciate per temperature fino a 40 gradi e forti venti. Ma c’è un’emergenza nelle emergenze.

L’esplosione del 4 agosto ha distrutto 85.000 case di Beirut, con danni tra 2,8 e 3,4 miliardi di dollari. Una perdita simile era avvenuta durante la guerra civile, quando la società Solidère – in mano all’allora premier Rafik Hariri – si era occupata della ricostruzione. I conflitti, si sa, portano anche buoni affari. La città è risorta, ma al prezzo di una corruzione spaventosa e della distruzione di tanti edifici tradizionali.

Eppure Elio, 28 anni, restauratore, che lavora per salvare queste bellezze, accende una speranza: «Io rimarrò a Beirut, la mia vita è qui, la mia famiglia, i miei amici. Non vedo il mio futuro altrove. Spero che la città ce la faccia anche questa volta». Dalla Corniche, il leggendario lungomare, dove in inverno si vedono i monti innevati e la costa di Jounieh che al tramonto si accende di luci, la ruota panoramica resta immobile. Come un simbolo di martirio.

© Riproduzione Riservata