Dalle bombe a grappolo a quelle incendiarie, dai proiettili all’uranio impoverito, ai veleni, ai mini-dardi che lacerano le persone. l’inasprirsi della guerra porta in campo i dispositivi di morte meno convenzionali.
Un treno blindatissimo ha percorso, il 12 settembre, 1.180 km sulla linea che da Pyongyang conduce alla città portuale russa di Vladivostok. A bordo il leader supremo della Corea del Nord, Kim Jong-Un. Per Vladimir Putin è lui l’arma in più, l’ultima frontiera prima dell’uso del nucleare tattico. Il viaggio ha seguito la visita a Pyongyang del ministro della Difesa russo Sergei Shoigu, accolta da Kim che gli ha mostrato personalmente i suoi dispositivi bellici: droni da combattimento e da sorveglianza, l’ultima generazione di missili intercontinentali, oltre a – si può supporre – armi non convenzionali che potranno essere utili con l’ulteriore inasprimento della guerra. «Gli Stati Uniti presto invieranno armi letali a Kiev» rifletteva Shoigu prima del viaggio, «dobbiamo rispondere». Detto fatto, Shoigu è tornato al Cremlino con una «lista della spesa» che ha consegnato direttamente nelle mani del presidente. E l’escalation è servita.
Grazie al contributo degli Usa, Kiev può impiegare bombe a grappolo (seppur bandite dalle Nazioni Unite), proiettili a uranio impoverito (materiale parzialmente radioattivo), missili a lunga gittata (oltre 300 km, che possono colpire fino a Mosca), come parte del miliardo e oltre di dollari in nuovi aiuti militari (sono 45 in totale, per il momento). Munizioni che rischiano di peggiorare sensibilmente il contesto bellico e le sofferenze della popolazione. Prendiamo le prime, le bombe a grappolo, altrimenti dette cluster bombs: si aprono a mezz’aria disperdendo decine di altre bombe su una vasta area, lasciando una pioggia di residui esplosivi su un raggio estremamente ampio (circa 30 metri). Per questo sono la più nota tra le armi vietate, anche se regolarmente utilizzate dagli eserciti.
Dopo che il New York Times ha documentato almeno 60 episodi in cui l’esercito russo ne ha fatto uso e 30 in cui cluster bombs sono state rinvenute presso edifici civili, Washington ha rotto gli indugi e ora anche Kiev ne è dotata. Con buona pace della Convenzione di Oslo sulle munizioni a grappolo del 2008, che ne vieta produzione e uso: 110 Paesi l’hanno firmata, ma non Russia e Ucraina. E nemmeno gli Stati Uniti. Mosca ha certamente usato cluster bombs in Siria e in Ucraina, gli Usa nelle guerre del Golfo del 1990 e nel 2003. La stessa Nato le impiegò nell’operazione militare in Kosovo del 1999 (alla quale prese parte anche l’Italia): un dossier della Croce Rossa rivelò che ne furono sganciate 1.392, contenenti 289 mila ordigni di dimensioni più piccole.
L’Alleanza atlantica all’epoca fu accusata anche di aver utilizzato proiettili e missili rivestiti di uranio impoverito. Anche questi sono entrati a far parte dell’arsenale tattico di Kiev: originati dagli scarti della produzione del combustibile per le centrali atomiche e delle testate per le bombe nucleari, sono definiti «a bassa radioattività». Riciclati dal Pentagono come proiettili per i carri armati Abrams e Avenger, perforano i mezzi corazzati e s’incendiano al momento dell’impatto liberando microparticelle di uranio, che possono essere inalate o rimanere sul terreno: se pure continuano a emettere radiazioni, gli studi scientifici sinora hanno negato un legame diretto tra proiettili e malattie. Ecco perché non sono mai stati messi al bando.
E se Washington colpisce con l’uranio, Mosca risponde con i veleni. Ci sarebbero persino gli oppioidi nell’arsenale a disposizione di Vladimir Putin. È quanto emerge da uno studio pubblicato su Jama, Journal of the American Medical Association, a firma di Eric Goralnick, dell’Harvard Medical School: «Sebbene meno pratici sul campo di battaglia, è plausibile che l’esercito russo possa utilizzare composti chimici e oppioidi per causare gravi perdite tra soldati avversari, manifestanti politici o civili intrappolati in edifici, ospedali, metropolitane o rifugi antiaerei». Del resto, «i programmi dedicati agli agenti biologici della Russia includono l’antrace (Bacillus anthracis), la peste (Yersinia pestis), il botulismo (Clostridium botulinum) e il vaiolo (Variola major)». Secondo lo studio, inoltre, «potenziali attacchi o incidenti radiologici in Ucraina sono più probabili di un attacco nucleare e potrebbero derivare dal rilascio deliberato di una “bomba sporca”, vale a dire di un dispositivo che combina un esplosivo con materiale radioattivo».
Infine, preoccupano gli analisti e i difensori dei diritti umani anche le bombe incendiarie e quelle al fosforo, le «freccette» e le munizioni non guidate: queste ultime, le più utilizzate dall’artiglieria russa, sono proiettili la cui traiettoria non può essere modificata una volta lanciati. Usati in modo indiscriminato contro aree abitate, come a Kharkiv e Mariupol, il loro utilizzo può costituire un crimine di guerra. Quanto alle altre, non sono esplicitamente vietate dai trattati internazionali, ma anche qui un uso indiscriminato costituisce un potenziale crimine di guerra. Le munizioni incendiarie e quelle al fosforo (arma chimica che in pochi secondi brucia i tessuti umani provocandone la necrosi fino alle ossa), perché per loro natura i danni non possono essere con sicurezza limitati a obiettivi militari. Le cosiddette flechettes, «freccette», sono invece proiettili dati in dotazione a carri armati e artiglieria: mini-dardi d’acciaio esplosi in quantità e in un ampio raggio. Nella strage di Bucha sono stati decine i civili trafitti e uccisi con quest’arma inventata nella Prima guerra mondiale ma riscoperta nel pantano ucraino. Benvenuti nella sporca guerra moderna.
