Il nuovo regime utilizza l’emergenza coronavirus per reprimere le critiche e arrestare i dissidenti. Tra malcontento sempre più diffuso, contagi in crescita e crollo del prezzo del petrolio, il Paese rischia di implodere. E molti giovani scappano, in cerca di fortuna in Europa.
E’ passato un anno e mezzo, eppure l’Algeria è ancora in mezzo al guado. Il grande movimento di protesta Hirak, cominciato il 22 febbraio del 2019, ha spazzato via l’ultimo rais, Abdelaziz Bouteflika, ma deve ancora lottare contro il sistema autoritario dei militari. Lo spirito è rimasto lo stesso di quel giorno memorabile, quando migliaia di persone brandivano la bandiera algerina bianca e verde con la mezzaluna e la stella rossa, cantando slogan contro il «Pouvoir», il regime corrotto, contro il quinto mandato del presidente, in sella da 20 anni. Il capo dello Stato, ultra ottantenne, era sulla sedia a rotelle, colpito da un ictus nel 2013. Non più una persona ma il simbolo di un sistema di potere.
Alla fine Bouteflika fu costretto a dimettersi e, dopo 10 mesi dall’inizio delle proteste, è stato eletto presidente Abdelmadjid Tebboune. Ma il Pouvoir non è morto. E per l’Hirak, il «movimento», la battaglia è ancora tutta in salita. L’epidemia di coronavirus ha dato una mano al regime: l’emergenza sanitaria, più che a impedire i contagi, è servita a soffocare e reprimere le manifestazioni. Di fronte a questo nuovo giro di vite l’Hirak potrebbe diventare violento, anche se finora è stato pacifico e compatto.
«La crisi da politica rischia di essere anche economica e sarebbe una miscela esplosiva» conferma Karim Mezran, analista dell’Atlantic Council di Washington. «Il regime non può più alternare la carota al bastone. Elargizioni economiche a repressione. Il denaro è molto meno, il sistema è frammentato, tant’è che l’élite non è riuscita neanche a mettersi d’accordo sul successore di Bouteflika. E l’esercito non è più formato da chi ha combattuto nella guerra per l’indipendenza dalla Francia colonizzatrice, ma è composto da giovani, meno propensi a schierarsi contro il popolo, e ostili anche loro alle cricche mafiose della vecchia generazione».
Le manifestazioni più imponenti prima della pandemia si sono tenute ad Algeri. Ma ora anche le provincie più remote sono in fibrillazione. A Bejaia, una città berbera a 200 chilometri a Est della capitale, i cittadini sono scesi in piazza contro le misure restrittive dovute alla pandemia e gli arresti arbitrari della polizia. A Kherrata, simbolo del nazionalismo algerino a causa dei massacri nella rivolta contro i francesi del 1945, descritta in maniera perfetta dal film di Gillo Pontecorvo La battaglia di Algeri, lo scorso mese i dimostranti hanno cantato slogan anti-governativi durante la celebrazione dell’Eid al-Fitr.
L’estate algerina si prospetta molto calda, anche perché il Paese è assediato da crisi multiple. L’epidemia di Covid-19 ha ucciso oltre mille persone secondo le stime ufficiali, ma le vittime reali potrebbero essere molte di più. «La repressione del regime a causa del coronavirus era prevedibile» precisa Mezran. «Sono stati arrestati tanti attivisti con vari pretesti, mai apertamente come sostenitori dell’Hirak. È stato possibile anche perché l’opinione pubblica mondiale era distratta dalla pandemia e c’era una scusa formale a queste misure così repressive».
All’emergenza Covid si è aggiunto il crollo del prezzo del petrolio, e la situazione si è fatta presto insostenibile. L’economia si è fermata. Il governo ha elargito alle famiglie più povere 10 mila dinari, circa 78 dollari, ma una volta soltanto. La somma corrisponde al minimo necessario per la sussistenza di due settimane. Gli idrocarburi costituiscono i tre quarti delle entrate statali e il 97 per cento delle esportazioni algerine. Il risultato di un’economia così sbilanciata è che il 70 per cento della popolazione vive con meno di 200 euro al mese. L’Algeria produce poco e importa quasi tutto. Da qui il famoso slogan che il Paese «mangia petrolio».
Anche se il presidente Tebboune ha ripetutamente promesso di riformare l’economia e sviluppare il settore non energetico per trovare nuove fonti di finanziamento, i risultati non si vedono. La disoccupazione è schizzata all’11,4 per cento. Un ulteriore calo degli utili da idrocarburi durante la pandemia ha costretto il governo a tagliare la spesa pubblica e ritardare i progetti di investimento pianificati. E l’esecutivo mantiene invariata la sua politica dei sussidi: il governo sovvenziona quasi tutto, dai generi alimentari di base agli alloggi, dalle medicine al carburante.
Nel frattempo sono partiti i preparativi per un referendum, previsto per la fine di quest’anno, sugli emendamenti alla costituzione per aumentare le libertà e dare più potere al Parlamento nell’ambito delle riforme politiche. Aperture con cui Tebboune cerca, senza esserne in grado, di porre un argine al senso di «hogra», alienazione e insofferenza verso il regime.
L’Hirak adesso potrebbe sfruttare questa rabbiosa disaffezione per dare un’altra spallata al regime. Il governo ha bloccato siti web critici nei suoi confronti, definendoli diffusori di fake news, e molti leader dell’opposizione sono stati arrestati con l’accusa di «ledere l’unità nazionale» o «attaccare l’integrità del territorio». Sono stati messi in manette figure chiave com l’attivista Amira Bouraoui, Karim Tabbou, una delle figure più emblematiche dell’Hirak, e Anis Rahmani, giornalista e direttore di Ennahar, il primo gruppo di media privati algerini. In tutto, sono oltre 100 le persone attualmente detenute con accuse legate alle proteste.
Il Paese, inoltre, è spaccato tra liberali e islamisti, berberi e arabi, ricchi e poveri. «Gli islamisti però non sono più la forza politica di una volta, questa è una rivolta del popolo, ma “headless”, senza testa» sottolinea Mezran. «Se il Paese implode, non verrà sostituito da un altro sistema, crollerà tutto. Il timore degli islamisti è utilizzato sempre dai regimi per soffocare le proteste». Ma anche un’altra paura, quella di cadere in una nuova guerra civile come quella degli anni Novanta, il cui ricordo è ancora forte, potrebbe porre un freno alle sollevazioni di massa.
L’Algeria è, infine, anche un crocevia di migranti sub-sahariani, attraverso una rete ramificata di «passeurs», i contrabbandieri di vite. Alcuni scelgono di approdare in Spagna e in Italia, in particolare in Sardegna. Dopo l’aumento dei controlli in Libia, la rotta si sta spostando a ovest, prima in Tunisia e ora in Algeria. Ma il Paese nordafricano, con i suoi quasi due milioni di cittadini all’estero, è anche un importante centro di emigrazione, soprattutto verso la Francia. Proprio il malessere di cui soffrono gli algerini sta dando, oggi, una grande spinta ad abbandonare il Paese. Soprattutto per i giovani, vivere nella propria patria è sempre più difficile, partire è l’atto estremo di chi non ce la fa più: bruciano i loro documenti d’identità (il fenomeno sempre più diffuso degli «harraga», quelli che bruciano) per non essere identificati quando arriveranno in Europa.
Il rapper Soolking ha dato le parole ai loro sogni. Nella sua famosa hit Liberté canta: «La libertà, la libertà, la libertà non ci fa più paura». La promessa di una liberazione che non può più attendere.
