Mentre gli Stati Uniti contano di completare il ritiro delle loro truppe entro fine agosto, i talebani avanzano. Washington intensifica gli attacchi aerei a sostengo delle forze governative. Ma si muovono anche Mosca e Pechino.
Chissà quale disegno, più politico che militare, stia effettivamente perseguendo la Nato che dal mese scorso in Turchia sta addestrando militari afghani appartenenti alle forze speciali. La domanda nasce spontanea dal momento che l’avanzata dei talebani nel paese è tanto rapida che difficilmente costoro riusciranno a terminare la formazione e a rientrare in tempo per poter portare a termine operazioni di riconquista. Più probabilmente saranno invece contingenti destinati a invadere l’Afghanistan nel tentativo di liberarlo, magari paracadutati da forze straniere.
Non passa dunque inosservato l’atteggiamento ben poco realista dell’Alleanza che mostra, insieme con gli Usa, di essere quantomeno fuori dalla realtà. Tre le possibilità. Primo: le forze occidentali non si aspettavano una riconquista dell’Afghanistan tanto rapida e ora dovranno convincere la politica che l’aver lasciato il territorio sia stato un grande errore. Secondo: ancora non se ne parla, ma è già stato messo in conto che entro la fine dell’anno sarà necessario un nuovo intervento con l’invio di un buon numero di truppe. Terzo: si temporeggia nella speranza che a rivolvere la situazione stavolta siano Cina e Russia.
Di certo c’è che l’idea stessa di ritirare le forze da una nazione instabile, scendendo a patti con un regime oscurantista come quello talebano, non poteva avere altro esito se non riaccendere la guerra civile. Stride quindi la dichiarazione del segretario alla Difesa statunitense Lloyd Austin, il quale il 25 luglio scorso aveva annunciato che i militari afghani avevano consolidato il controllo dei principali centri abitati dopo la partenza delle forze internazionali.
Fatto sta che, secondo la stampa specializzata in questioni militari, i talebani controllano ora più della metà del territorio nazionale afghano, con 221 distretti su un totale di 407. I meno popolati, ma strategicamente quelli con più vi di accesso. A dare speranza agli afghani democratici è stato però il generale Kenneth McKenzie, capo delle operazioni militari Usa, che ha dichiarato: «Stiamo intensificando gli attacchi aerei a sostegno delle forze afghane ne pensiamo di continuare a farlo se i talebani proseguiranno le operazioni». Come non bastasse, gli islamisti controllano completamente le frontiere compresi i valichi verso le nazioni confinanti, intercettando quindi qualsiasi tipo di rifornimento che non possa essere inviato in volo.
La situazione è particolarmente grave a Kandahar, ormai circondata e peraltro mai completamente liberata neppure quando erano presenti le truppe Nato. Per il regime talebano si tratta di un luogo simbolico, ma anche dal grande valore strategico, poiché vicino al confine pakistano. E, seppure le mire di conquistare Kabul non possano essere concretizzate rapidamente, possedere anche una roccaforte a Sud del Paese significa potersi lanciare alla conquista della capitale.
Se Kandahar dovesse cadere completamente nella mani dei talebani questi proclamerebbero la ricostituzione dell’Emirato afghano e potrebbero organizzarsi rapidamente per attaccare Kabul indebolendo da subito il potere politico del presidente Ashraf Ghani. La strategia degli islamisti è chiara: attaccare senza sosta anche la città meridionale di Laskar Gah, dove è presente in maggioranza quell’etnia pashtun che partecipa al movimento talebano. E poco consola che l’esercito governativo sia riuscito a vincere a Taloqan, respingendo l’avanzata delle bandiere nere.
Secondo Reuters e Bbc i reparti governativi stanno ancora controllando le principali vie di comunicazione interne e le città più popolate, mentre gli avversari hanno gioco facile nel conquistare le zone con meno densità abitativa. Tra gli scenari possibili c’è anche quello che vedrebbe l’India valutare una discesa in campo per aiutare Ghani in chiave anti-pakistana, almeno stando alle indiscrezioni sui motivi del possibile viaggio del numero uno dell’esercito afghano Wali Mohammad Ahmadzai a Dheli, missione cancellata proprio a causa dei successi militari talebani.
A livello internazionale, infatti, una vittoria dell’Emirato significherebbe l’apertura dei confini afghani ai movimenti jihadisti perseguiti in altre nazioni, con il successivo rafforzamento delle forze estremiste e il pericolo che dal Paese possano poi partire campagne terroristiche su scala internazionale. Questo aspetto preoccupa l’Occidente, ma anche Cina e Russia, i cui diplomatici hanno recentemente incontrato il mullah talebano Abdul Ghani Baradar, uno dei fondatori del movimento e oggi direttore dell’ufficio di rappresentanza di Doha, Qatar.
Pechino in questa occasione ha ribadito l’invito a non attaccare i convogli che attraversano la zona di confine tra Afghanistan e Cina, circa 90 chilometri nella provincia del Badakhshan, trasportando i minerali estratti sfruttando le concessioni minerarie stipulate con il governo di Ashraf Ghani, e al tempo stesso chiedendo ai telebani di non interferire con i ribelli uighuri attivi contro Pechino nel confinante Sinkiang. Insomma, per Pechino una vittoria degli islamisti andrebbe comunque benone purché attui una politica inclusiva volta a mantenere la pace in tutta la nazione.
Dunque a livello internazionale sarà impossibile trovare una linea d’azione comune: scendendo a patti con i talebani li si legittima a livello internazionale e poco vale che i capi del movimento abbiano dichiarato di non ospitare alcuna organizzazione terroristica, a cominciare dalla riorganizzata Al-Qaeda. Da Mosca il responsabile per l’Afghanistan Zamir Kabulov ha dichiarato che la Russia è preparata ad affrontare qualsiasi scenario e ha inviato nuovi contingenti militari in Tagikistan e Kirghizistan alla luce del peggioramento della situazione in Afghanistan e dell’avanzata dei talebani. Con Pechino, Mosca concorda su un fatto: il ritiro degli Usa ha lasciato più problemi di quanti la coalizione ne abbia risolti in 20 anni.
