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L’attesa per i documenti della pista saudita sull’11 settembre

L’attesa per i documenti della pista saudita sull’11 settembre

Il presidente americano, Joe Biden, ha ordinato di desecretare alcuni documenti dell’Fbi sull’11 settembre. E i parenti delle vittime puntano sulla pista saudita.


Joe Biden ha siglato venerdì scorso un ordine esecutivo, che prescrive di desecretare alcuni documenti dell’Fbi inerenti agli attacchi terroristici dell’11 settembre. In base al decreto, si stabilisce che le informazioni debbano essere rese pubbliche entro i prossimi sei mesi. Non è al momento chiaro quali impatti politici possa avere questa mossa. E’ comunque evidente che l’annuncio di Biden fosse atteso dai parenti delle vittime che, ormai da anni, stanno portando avanti una causa legale che punta a dimostrare il coinvolgimento del governo saudita negli attentati di vent’anni fa. Un’accusa, questa, che Riad ha sempre respinto con forza. Va detto che, per il momento, prove ufficiali di un suo diretto coinvolgimento non siano state rinvenute. Ciononostante va anche ricordato che siano state reperite evidenze su collegamenti di natura potenziale.

Innanzitutto, quindici dei diciannove dirottatori erano cittadini sauditi, così come saudita era lo stesso Osama bin Laden. In secondo luogo, è pur vero che il rapporto della Commissione nazionale sull’11 settembre, pubblicato nel 2004, ha stabilito che non ci siano evidenze di un coinvolgimento diretto del governo di Riad. Tuttavia quello stesso documento ha anche riportato (a pagina 55) che lo sceicco del terrore fosse stato finanziato da alcuni soggetti e fondazioni dell’Arabia Saudita e di altri Paesi del Golfo. Inoltre, il rapporto (a pagina 171) aggiungeva di “non escludere la probabilità che fondazioni con una significativa sponsorship del governo saudita avessero deviato fondi ad al Qaeda”. In terzo luogo, ulteriore materiale provenne dal rapporto dell’Inchiesta congiunta sulle attività della comunità di intelligence: rapporto che venne redatto nel 2002, ma di cui una parte –le cosiddette “ventotto pagine”– venne secretata dall’amministrazione Bush e resa pubblica da Barack Obama soltanto nel luglio del 2016.

Ebbene, in questa sezione fu stabilito che i dirottatori ricevettero probabilmente supporto da alcuni soggetti connessi a loro volta al governo saudita. “Mentre si trovavano negli Stati Uniti”, si legge in queste pagine, “alcuni dei dirottatori dell’11 settembre erano in contatto e ricevevano supporto o assistenza da individui che potrebbero essere collegati al governo saudita. Ci sono informazioni, principalmente da fonti dell’Fbi, che almeno due di queste persone sarebbero state ritenute da alcuni ufficiali dell’intelligence saudita”. In quarto luogo, ProPublica –nel gennaio del 2020– ha rivelato che si sarebbero registrate delle spaccature interne all’Fbi sul tema del coinvolgimento del governo saudita. Alcuni esperti di antiterrorismo –secondo la testata– ritengono improbabile che Riad possa essersi impegnata in un simile attacco contro un alleato storico e potente come Washington e sono pertanto portati a pensare che, dietro gli attacchi, si muovessero “estremisti della burocrazia clericale”. Tuttavia, sempre all’interno dell’Fbi, sarebbe stata registrata –secondo ProPublica– una “opposizione delle autorità saudite” allo svolgimento delle indagini.

Un ulteriore elemento da sottolineare è poi quello delle relazioni internazionali. Negli anni ’90, non soltanto Riad intratteneva solidi legami con il Pakistan, che sosteneva a sua volta i talebani. Ma gli stessi talebani erano in buoni rapporti con i sauditi: ricordiamo infatti che l’Arabia Saudita fosse uno dei pochissimi Paesi a riconoscere formalmente l’Emirato islamico dell’Afghanistan (la cui breve vita si dipanò dal 1996 al 2001). Ora, è pur vero che il rapporto della Commissione nazionale dell’11 settembre abbia evidenziato i cattivi rapporti tra il governo di Riad e Osama bin Laden all’inizio degli anni ’90. Ma è altrettanto vero che, nello stesso 1996, lo sceicco del terrore fece ritorno in Afghanistan, dove ottenne –sempre secondo il rapporto– ampia libertà di movimento all’ombra del regime talebano (che –come abbiamo visto– Riad era tra i pochi a riconoscere). Tutto questo, senza infine dimenticare che l’Arabia Saudita finanziasse le scuole coraniche pakistane in cui si formavano i talebani. Infine, non bisogna neppure trascurare che lo stanziamento delle truppe americane in Arabia Saudita –iniziato nell’agosto del 1990 in preparazione alla Guerra del Golfo e conclusosi soltanto nell’agosto del 2003– avesse irritato non poco ampi settori della popolazione musulmana, la quale considerava quella presenza militare alla stregua di un’occupazione. Nell’aprile del 2003, la Bbc parlò tra l’altro –sotto questo aspetto– di una “spaccatura tra Riad e Washington”.

Dall’altra parte, bisogna tuttavia evitare i facili automatismi. Va infatti innanzitutto sottolineato che –sempre secondo il rapporto della commissione 11 settembre– negli anni ’90 alti esponenti di al Qaeda avessero intrattenuto “contatti” con un acerrimo nemico dei sauditi come l’Iran. Non solo: a pagina 240, il documento rileva che “i membri di al Qaeda ricevevano consulenza e addestramento da Hezbollah” (organizzazione libanese notoriamente spalleggiata da Teheran). Inoltre, a pagina 66, il rapporto sostiene anche che –alla fine degli anni ’90– bin Laden avrebbe avuto vari incontri con funzionari iracheni, i quali gli avrebbero offerto un rifugio in Iraq (ricordiamo che, in quel periodo, i rapporti tra Riad e Baghdad fossero significativamente tesi).

E’ tuttavia attorno alla questione saudita che, nel 2016, si consumò lo scontro tra Obama e il Congresso sul Justice Against Sponsors of Terrorism Act: una legge che rendeva lecito intentare una causa contro uno Stato straniero per motivi di terrorismo. Il provvedimento fu fortemente osteggiato all’epoca da Riad, con l’allora presidente americano che appose il proprio veto alla legge. Un veto tuttavia che il Congresso riuscì ad aggirare con una schiacciante maggioranza. D’altronde, proprio il Justice Against Sponsors of Terrorism Act è la normativa che ha consentito l’avvio della causa anti-saudita nel 2017.

Certo: come sottolineato dal Guardian la settimana scorsa, è improbabile che i documenti desecretati possano dare una risposta a tutti gli interrogativi ancora in essere sugli attacchi dell’11 settembre. Tuttavia è chiaro che, almeno al momento, l’interesse prevalente sia concentrato su un eventuale ruolo del governo saudita. E non sappiamo ovviamente al momento se i nuovi documenti possano gettare nuova luce su questo fronte. Certo è che, alla base della decisione di Biden, si scorgono dinamiche legate sia alla politica interna che a quella internazionale. Al di là della pressione dei parenti delle vittime, il presidente americano sta infatti innanzitutto cercando di rompere l’assedio in cui si è ritrovato principalmente a causa della crisi afghana. In secondo luogo, eventuali reazioni negative da parte di Riad possono (almeno teoricamente) essere sopportate dall’attuale amministrazione americana, che –almeno in questa fase– ha notevolmente raffreddato i rapporti con l’Arabia Saudita.

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