I numeri parlano chiaro. Stellantis accelera sulla riconversione elettrica con produzione di elementi cruciali, come le batterie, in stabilimenti Oltralpe. Non solo: là prevede di investire anche nei nuovi modelli. Un pessimo segnale per le fabbriche italiane del gruppo, che aumentano i giorni «di fermo». E, a cascata, per le 300 mila aziende dell’indotto.
Che la produzione di auto targate Stellantis e il conseguente sviluppo della componentistica abbia il suo centro nevralgico in Francia è ormai una realtà.Il timore sempre più fondato è che il passaggio all’elettrico acuisca il fenomeno innescando un circolo vizioso che colpisce la manifattura e l’occupazione in Italia. Perché è facile dare garanzie a parole, come fanno l’amministratore delegato Carlos Tavares e il presidente John Elkann, ma se poi tutti i numeri vanno in un’unica direzione qualche domanda bisogna pur farsela. «Per sopraggiunta mancanza di componenti, l’attività produttiva nell’intero stabilimento automobilistico Stellantis di Melfi sarà sospesa dalle ore 14 di giovedì alle 6 di sabato». Questa scarna comunicazione arrivata a cavallo di metà ottobre sintetizza in modo plastico quello che sta succedendo in uno dei siti italiani che soffre maggiormente la transizione. Dall’inizio dell’anno a Potenza ci sono stati circa 50 stop produttivi, le vetture messe sul mercato si sono ridotte di un terzo rispetto al 2019 e solo nell’ultimo anno le incentivazioni all’uscita su base volontaria ha coinvolto quasi 1.300 lavoratori, portando l’occupazione sotto quota seimila unità.
«C’è un comune denominatore che riguarda tutti i Paesi» evidenzia Ferdinando Uliano, il segretario nazionale della Fim. «Con il passaggio all’elettrico il peso della componentistica si riduce di circa il 30 per cento, semplicemente perché i nuovi veicoli necessitano di minori elementi rispetto alle auto tradizionali. Proprio per questo bisogna muoversi per tempo per evitare un effetto a catena sull’indotto che coinvolge circa 300 mila lavoratori. L’Anfia (Associazione della filiera dell’industria automobilistica, ndr), ci conferma che il 40 per cento della filiera si dedica ancora in modo esclusivo all’endotermico (marmitte, pistoni, serbatoi, sistema di alimentazione), mentre la parte restante lavora anche per l’elettrico o comunque su prodotti, si pensi ai sedili, alle luci o agli pneumatici, per i quali la transizione è praticamente indifferente. Ecco è su quel 40 per cento che dobbiamo intervenire con l’aiuto del governo».
L’Italia ha poi una peculiarità – la dipendenza ancora fortissima da Stellantis (circa il 40 per cento del totale), per cui in alcune zone del Paese l’indotto dipende esclusivamente dalle commesse dell’azienda nata dalla fusione tra Fiat Chrysler Automobiles e Psa. Se il capo azienda Tavares decide lo stop agli ordini questi siti rischiano di scomparire in pochi mesi. «Il caso che fa scuola è quello di Melfi» continua Uliano, «dove si produce la nuova 500X, Jeep Renegade e Compass e che in due anni dovrebbe portare sul mercato 5 full electric. Qui i tremila dipendenti della filiera sono completamente legati ai contratti con l’azienda italo-francese. Se i contratti non vengono rinnovati – fino a luglio per esempio siamo stati nell’incertezza con Marelli che dà lavoro a 261 persone – diventa difficile continuare l’attività e in queste zone riqualificarsi e trovare un’altra occupazione è complicato. Quella di Melfi è una situazione estrema, ma negli altri siti Stellantis, sebbene i fornitori abbiano più clienti, il quadro non è granché differente. Per questo abbiamo chiesto al ministro Urso di spingere per ottenere garanzie da Carlos Tavares anche sulla componentistica italiana. Come? Di certo non si può obbligare un’azienda privata, ma al tempo stesso dobbiamo sempre ricordare che Stellantis mantiene una quota di circa il 32 per cento del mercato italiano, insomma gli incentivi possono agevolare la moral suasion per la scelta dei fornitori».
Chi pensa che ci sia ancora tempo e l’agenda green dell’Europa possa essere mandata al macero è fuori strada. Certo si potrà agire su tempistiche e modalità della messa al bando dei motori endotermici, ma le grandi case hanno già investito miliardi sui progetti per l’auto elettrica, Stellantis ne ha messi sul piatto una ventina; insomma la strada è segnata ed è quella che bisognerà seguire per non perdere il passo. Anche perché c’è una tendenza di fondo. Lì dove i nuovi modelli elettrici sono andati a regime la produzione cresce, altrove flette. Anche a Cassino, per esempio, le giornate di fermo sono state una cinquantina, gli ammortizzatori (contratti di solidarietà) continuano e più in generale c’è un’evidente potenzialità inespressa con i volumi in crescita della nuova Maserati Grecale (spicca la full elettrica) che non compensano la flessione sulle due Alfa Romeo, Stelvio e Giulia. A Mirafiori si viaggia su due direzioni. La produzione della «500» elettrica che ha superato le 63 mila unità (più 15 per cento sul 2022) e quella della linea Maserati dove i giorni di stop sono stati addirittura 86, con il coinvolgimento di 1.780 lavoratori, tant’è che dal sito a fine anno non usciranno più di 8 mila vetture dello storico Tridente (il simbolo della casa) contro le 55 mila del 2017.
«Non abbiamo numeri precisi ed è ancora presto», evidenzia Stefano Boschini, coordinatore nazionale automotive della Cisl, «ma i riscontri sul campo ci dicono che c’è il forte rischio che in alcuni siti dove si realizzano vetture elettriche Stellantis possa sostituire i fornitori italiani con quelli francesi. Non vogliamo fare allarmismi, ma oltre a pressare sul lato della domanda dobbiamo accelerare il processo di riconversione dei produttori di componenti per l’automotive e in questo il governo può avere un ruolo chiave». Anche perché la Francia ha già preso un bel vantaggio. Basti pensare alla produzione di batterie che rappresentano circa il 40 per cento del costo di una vettura elettrica e per la maggior parte vengono realizzate in Asia. Mentre in Italia il sito di Termoli in joint venture tra Stellantis, Mercedes e Total inizierà a portare i primi «pezzi» sul mercato solo nel 2026, in Francia a maggio è stato inaugurato lo stabilimento di Douvrin: entro il 2025 occuperà 600 persone che a regime, nel 2030, dovrebbero diventare circa duemila. Nella stessa cittadina e in collaborazione con l’Unione industriale, lo Stato e la Regione è stato creato il primo Battery training center come parte del programma di riqualificazione e aggiornamento professionale. «Grazie a un corso di 400 ore, i dipendenti di Stellantis acquisiranno nuove competenze nella produzione di batterie, consentendo alla regione Hauts-de-France di svolgere un ruolo da protagonista in un settore cruciale per la transizione verso l’elettrificazione». Quello che si legge nel comunicato la dice lunga sul vantaggio competitivo che si accumula Oltralpe.
Tant’è che secondo le proiezioni della società di analisi del settore Benchmark Minerals Intelligence al 2030 la Germania avrà una capacità produttiva di 325 gigawattora, la Francia di 162, mentre l’Italia dovrebbe fermarsi intorno ai 40. Perché, inutile girarci intorno, è naturale che nei pressi di questi siti siano destinati a nascere veri distretti dell’elettrico; ed è altrettanto normale – Stellantis prevede nei prossimi tre anni che in Francia vengano prodotti il doppio dei nuovi modelli (24 contro 13) rispetto a quelli lavorati in Italia – come la sfida diventi impari. Del resto, il discorso delle batterie può essere esteso con le stesse dinamiche ai semiconduttori, alla digitalizzazione e alla guida autonoma. Insomma bisogna muoversi il prima possibile. Sarà fondamentale ottenere garanzie dai vertici della multinazionale dell’auto, così come sono centrali gli investimenti. L’Italia per il settore automotive ha messo a budget 8 miliardi fino al 2030 e per adesso ne sono stati spesi poco più di 1,5 sostanzialmente per gli incentivi. Ma ancora una volta l’Europa gioca un ruolo cruciale. Perché l’impressione, numeri alla mano, è che sulla concessione degli aiuti di Stato, l’allargamento delle maglie abbia premiato Francia e Germania a nostro discapito. Dei 672 miliardi di euro in aiuti che la Commissione europea ha approvato nel 2022, infatti, il 77 per cento è andato a Berlino e Parigi e il 7 per cento a Roma. Se la modalità è questa, si pensi solo alle sovvenzioni per attrare i produttori di chip in Sassonia, diventa impossibile per qualsiasi governo colmare il gap competitivo nella sfida vitale della trasformazione del tessuto produttivo dell’automotive.
