Eni, Poste, Ferrovie oggi. Enel, Telecom, Autostrade ieri. La storia delle privatizzazioni in Italia è una storia che ha fatto il boom negli anni ’90, quando il debito pubblico impennò (oltre 120% del Pil) e molte aziende pubbliche iniziarono ad essere considerate un peso gravoso per le casse statali. “In un processo di «portata storica» nel periodo 1985-2007 le privatizzazioni delle proprietà economiche pubbliche hanno raggiunto il valore di 152 miliardi di euro”, riporta la Corte dei Conti (febbraio 2010). Oggi il governo Meloni prevede privatizzazioni per 20 miliardi di euro da qui al 2026.
Il processo di privatizzazioni in Italia negli anni ’80 si limitò alle cessioni di Alfa Romeo a Fiat e di Lanerossi al gruppo Marzotto. Ma il vero boom è stato negli anni ’90, tanto che l’Italia fu tra i Paesi che vendettero maggiormente i propri “gioielli di famiglia”, dietro solo per dimensione di vendite a Giappone e Regno Unito. Chi non pensa all’Iri (Istituto per la Ricostruzione Industriale) quando si parla di privatizzazioni nel nostro Paese? Negli anni ’90 si iniziò a mettere a punto la macchina delle privatizzazioni, delle “svendite” in alcuni casi.
Le prime nel 1993: Nuovo Pignone e Sme. Poi dal 1994 arrivò il periodo delle grandi vendite. Le privatizzazioni portarono nelle casse del Tesoro miliardi di euro: Imi, l’Istituto mobiliare italiano (1,6 miliardi dal 1994 al 1996); Ina, l’Istituto Nazionale delle Assicurazione (4,8 miliardi tra il 1994 e il 1995); Eni (dal 1995 in poi per un totale di 28,5 miliardi); Bnl (nel 199 e poi nel 2001 per 3,4 miliardi); Telecom Italia (13 miliardi dal 1997 al 2002); Autostrade (2,5 miliardi); Enel (negli anni 35,7 miliardi); Mediocredito Centrale (nel 1999 1,2 miliardi); Ente Tabacchi Italiani (nel 2003 per 2,3 miliardi); Seat (852 milioni). E poi San Paolo, Banco di Napoli. Tra il 2011 e il 2016 è stata la vota di Sace, Simest, Enav, Generali, una tranche di Enel, Fintecna, Fondo italiano d’investimento, e una quota di Poste italiane: in totale 15.4 miliardi di euro nelle casse statali.
Con l’arrivo del nuovo secolo ovunque c’è stato un calo di privatizzazioni, Italia compresa. E da quel momento si tornò alle dismissioni sostanziose solo in alcuni momenti. Come quando il governo Monti, sotto la minaccia del rischio default, nel 2013 cedette per 10 miliardi di euro Fintecna e Simest a Cdp Sace. Con il governo Renzi le vendite tornarono a crescere: Enel (5,2% per 2,2 miliardi), Ansaldo Energia (400 milioni) Cdp Reti (ceduta al 40,9% per 2,4 miliardi) e Enav (venduto il 42,5 % per 834 milioni).
Miliardi di euro entrati negli anni nelle casse del Tesoro, ma dividendi e proprietà persi. E spesso si è parlato di “svendite”. Un esempio per tutto è il Banco di Napoli. Lo Stato lo cedette nel 1997 a Bnl e Ina per 61 miliardi di lire. Dopo due anni, nel 1999 fu venduto per 3.600 miliardi di lire. Una plusvalenza per Bnl e Ina di 3500 miliardi di lire. La cessione di Imi in tranche a partire dal 1994 rese oltre 2mila milioni di euro allo Stato. Nel 2002 Imi-Sanpaolo capitalizzò 16.941 milioni di euro.
