Home » Attualità » Economia » Lo stile Fiat, ovvero la militarizzazione sabauda di Elkann

Lo stile Fiat, ovvero la militarizzazione sabauda di Elkann

Lo stile Fiat, ovvero la militarizzazione sabauda di Elkann

La Stampa e La Repubblica perdono copie e soldi da anni. Ma il recente ribaltone voluto da John Elkann risponde a una più ampia strategia politica. Che si dispiegherà dopo una dolorosa ristrutturazione del personale.


John Elkann, uomo di azione e di pensiero, lo aveva scritto l’8 aprile nella lettera agli azionisti di Exor, la holding della famiglia Agnelli Elkann che controlla Fca, Cnh, Ferrari, Juventus e Gedi. Il nipote preferito di Gianni Agnelli si era affidato alle parole di Leonardo da Vinci per lanciare un messaggio forte: «Sapere non è abbastanza, dobbiamo agire. Avere ottime intenzioni non basta, dobbiamo fare». Quindici giorni più tardi, un minuto dopo che si è perfezionato il passaggio di mano del pacchetto di controllo di Gedi dai De Benedetti alla sua famiglia, ha agito.

Dopo nemmeno un anno di direzione, Elkann ha cacciato il direttore di Repubblica, Carlo Verdelli, centrando in bello stile il giorno esatto, il 23 aprile, in cui scadeva la sua folle condanna a morte, decretata da chi lo minacciava da mesi e lo aveva costretto a vivere scortato dalla polizia. E anziché pescare da fuori, lo ha sostituito con il direttore della Stampa, Maurizio Molinari. Poi ha preso l’unico che avrebbe potuto guidare un’eventuale rivolta dei «romani» di Largo Fochetti, Massimo Giannini, il preferito del fondatore Eugenio Scalfari, e lo ha spedito a Torino. Quindi ha nominato amministratore delegato il fedelissimo Maurizio Scanavino (47 anni), fiero tifoso granata e amico di gioventù suo e del fratello Lapo.

Insomma, al primo cda utile di Gedi, John Elkann (44 anni) ha imposto il famoso «stile Fiat», ovvero un curioso impasto di caserma sabauda e allure transoceanica, di meritocrazia e di familismo moraleggiante. Perché dopo soli tre anni di vita, se il progetto Gedi era quello dichiarato all’inizio, ovvero costruire un grande gruppo e «creare valore per gli azionisti», è fallito. Se invece era procedere a una concentrazione editoriale mai vista, tagliare costi a man bassa e garantire un ordinato e tranquillo espatrio a ciò che resta della Fiat, allora tocca riconoscere che al Lingotto si sono mossi con sapienza.

Mentre l’attenzione si focalizzava sul ribaltone a Repubblica e sulle sue possibili implicazioni politiche, passava in secondo piano il bilancio di questi primi tre anni di Gedi. Il 5 aprile 2017 Mister Exor aveva accarezzato i piccoli azionisti: «Gedi avrà ricavi complessivi di circa 700 milioni, una redditività tra le più alte del settore, non avrà debiti, una diffusione media aggregata (carta e digitale) di circa 740.000 copie al giorno, più di 5,8 milioni di lettori». E Rodolfo De Benedetti, che all’esordio aveva il 43% di Gedi, in un’intervista a Bloomberg garantiva che la nascita del nuovo gruppo dimostrava «il nostro impegno di lungo periodo nel settore dei media» (26 aprile 2017).

In tre bilanci, il gruppo non ha mai superato i 650 milioni di ricavi annui. il titolo ha bruciato in Borsa il 45% del proprio valore e ora Gedi capitalizza appena 233 milioni di euro. La famosa «redditività più alta del settore» non si è mai vista (L’Espresso era sempre in utile, ma La Stampa chiudeva i bilanci in rosso da anni) e nel triennio si sono accumulate perdite per 284,5 milioni. Il primo anno, poi, un modesto utile operativo è stato interamente mangiato da un vecchio contenzioso fiscale che ha causato 175 milioni di esborso e nasceva in casa Espresso-Repubblica.

I debiti non fiscali, questo è vero, alla nascita non c’erano. Ma adesso l’indebitamento finanziario netto sfiora i 100 milioni e i debiti commerciali al 30 settembre erano 80 milioni. Sempre tra maggio 2017 e febbraio di quest’anno (ultimo dato Ads disponibile) le copie vendute in edicola, che rappresentano il vero dato considerato dagli inserzionisti pubblicitari, sono crollate.
Se il concorrente Corriere della sera è sceso da 196.438 a 174.541 copie, Repubblica è passata da 174.004 a 132.270 e La Stampa è franata da 116.502 ad appena 86.619. Visto che ha perso solo una copia su quattro in meno di tre anni, il direttore del giornale di Torino è stato promosso alla guida dell’ammiraglia del gruppo.

Il problema di Gedi è che il mercato dell’informazione tradizionale è in crisi da un ventennio e i giornali perdono copie, a meno di inventarsi fogli corsari, possibilmente non gravati da conflitti d’interesse di ogni tipo e capaci di ascoltare i lettori. Il John Elkann che con 100 milioni di euro liquida i De Benedetti e promette una focalizzazione su una nuova multimedialità, ma con i soliti tagli di organico (rischiano 150 giornalisti a Repubblica) fa davvero una magra figura al confronto di Pier Silvio Berlusconi e del suo progetto Mfe (Media for Europe), dove lo spostamento di Mediaset dall’Italia coincide invece con la costruzione di un colosso europeo della tv generalista che sogna di opporsi a Netflix ed è cominciato con la scalata di Prosiebensat in Germania. Non con il taglio di poligrafici e giornalisti.

Fin dal primo giorno, i numeri dicono che il vero cuore del progetto Gedi si chiama Gnn, la rete di 13 giornali locali nella quale è stata correttamente inserita anche La Stampa, capofila editoriale di questo piccolo impero che comprende testate ancora molto vivaci come Il Tirreno di Livorno e Il Piccolo di Trieste. Tra il 2017 e il 2018 i ricavi di Gnn sono passati da 204 a 254 milioni, con un margine operativo che è cresciuto da 23,6 a 25,5 milioni.

Qui lo sbandierato merito ha funzionato, con il capo operativo di Gnn, Scanavino che è stato promosso alla guida dell’intera Gedi, al posto di Laura Cioli. Certo, il prezzo è stato una dura ristrutturazione, con 120 esuberi tra i poligrafici, tagli e accorpamenti di funzioni a Torino e scomparsa di qualsiasi autonomia delle varie testate. Ma il modello Gnn, che sarà applicato a Repubblica, conviene perché a livello locale i giornali sono ancora capaci di incidere politicamente con uno sforzo economico relativamente ridotto, mentre già controllare La Stampa, per esempio, non ha impedito a una Chiara Appendino o a un Alberto Cirio di mandare a casa i Fassino e i Chiamparino, con gran dispetto della Real casa (nel frattempo spostatasi ad Amsterdam).

I detrattori del progetto Gedi, ma anche i sindacati dell’auto, sospettano che il mostro Gedi, con i suoi cantieri permanenti, serva solo a mantenere quel minimo di pressione politica che consenta agli Agnelli-Elkann di continuare ad avere cassa integrazione on demand per gli stabilimenti Fca. In attesa che la fusione con Psa, affidata a un tagliatore di teste come Carlos Tavares, faccia quello che deve fare. Non a caso si parla con insistenza di un prossimo dorso economico-finanziario da accludere ai giornali Gedi, anche approfittando della lunga agonia dei quotidiani specializzati.

John Elkann conosce questa obiezione e ha ribadito che «Fca-Psa manterrà tutti i siti produttivi» (ma bisogna vedere con quanti operai) e ha nuovamente affermato l’impegno a «garantire la libertà di espressione e un’informazione responsabile e libera da ogni condizionamento». Dal momento che, con il 43%, è il primo azionista dell’Economist, dove uno speciale statuto protegge l’autonomia della redazione e affida la scelta del direttore a quattro saggi, il cosmopolita Elkann potrebbe importare questo modello anche in «Stampubblica». E riscattare con un colpo a effetto quell’impressione di militarizzazione sabauda che ha dato con il giro di vite del 23 aprile.

© Riproduzione Riservata