Negli Stati Uniti, il successo della vaccinazione di massa spinge i giganti di Wall Street, così come i big della tecnologia, a cambiare idea sul lavoro da remoto. Ora è «un’aberrazione da correggere», causa di stress e calo di efficienza. E anche in Italia l’entusiasmo iniziale mostra le prime crepe.
I primi a suonare la ritirata sono stati i giganti di Wall Street. Proprio quelli che fino a qualche mese fa magnificavano i vantaggi dello smart working, ora stanno facendo marcia indietro. Il dietro front coincide, non è un caso, con i risultati della massiccia campagna vaccinale voluta dal presidente Usa, Joe Biden, e la prospettiva di sconfiggere la pandemia entro l’estate. Quindi, finita l’emergenza si può tornare alla normalità.
Sentite quello che ha detto David Salomon, ceo di Goldman Sachs, sul lavoro da casa: «È un’aberrazione che correggeremo prima possibile. Le connessioni sono fondamentali». Negli uffici della banca d’affari di Londra e New York, i presenti in pandemia sono scesi al 10%. Ora però, visti i risultati della vaccinazione, Salomon pensa a riportare tutti in sede entro l’estate. Il ceo di Barclays, Jes Staley, ha annunciato che il suo staff di 80.000 persone tornerà in ufficio entro l’anno e allo stesso obiettivo lavora Chuck Robbins di Cisco, perché, ha detto alla Cnbc, «me lo chiedono i dipendenti».
Stessa problematica alla JPMorgan. «Non si impara molto, stando seduti a casa» ha sentenziato il numero uno Jamie Dimon, riferendosi soprattutto ai giovani analisti. La finanza si è anche accorta che il vantaggio dello smart working, cioè dipendenti connessi h24, in realtà è un boomerang. Il proliferare delle riunioni via Zoom anche nel weekend, anziché aumentare la produttività ha fatto esplodere casi gravi di stress e crollo della concentrazione. Tant’è che la top manager di Citigroup, Jane Fraser, ha deciso lo Zoom-Free-Friday: nessuna videochiamata ai dipendenti di venerdì.
La Cnn ha riportato che dall’inizio della pandemia, i banchieri junior di Goldman Sachs lavorano una media di 95 ore la settimana e dormono, al massimo, cinque ore a notte. Cambio di passo pure dei giganti dell’hi-tech. Microsoft e Apple hanno già avviato un piano di rientro progressivo dei dipendenti negli uffici.
In Italia cosa accade? Il tema è dibattuto. L’entusiasmo iniziale ha già mostrato le prime crepe. Quella che sembrava una situazione idilliaca – meno spese per i trasferimenti in ufficio e i pasti fuori casa, più presenza con i figli – si è trasformata in una gabbia. Orario di lavoro senza limiti, straordinari saltati, buoni pasto eliminati e bollette salate per l’uso massiccio dei pc. Prima del Covid, lo smart working interessava 570.000 lavoratori, nella pandemia si è arrivati a 8 milioni: circa 5 milioni nel settore privato e quasi la totalità nella pubblica amministrazione.
Il primo a dire «torniamo in ufficio» è stato il sindaco di Milano Beppe Sala. Era giugno scorso e la curva della pandemia sembrava in flessione. Poi il virus è riesploso ma il messaggio era stato lanciato: lavorare da remoto fa parte dell’emergenza, non è la normalità. Il giuslavorista Giuliano Cazzola è convinto che «le prestazioni da remoto resteranno, in una certa quota, nelle grandi imprese, lì dove consentono un risparmio, mentre nelle piccole realtà si tornerà in ufficio». Il futuro, commenta, è legato alla regolamentazione.
Per la pubblica amministrazione il dibattito è in corso e l’intenzione del ministro Renato Brunetta, secondo i sindacati, sarebbe di consentire il lavoro da remoto a un dipendente su tre, abbassando però tale quota, qualora i servizi non dovessero essere garantiti al pubblico. Nel settore privato il ministro del Lavoro, Andrea Orlando, ha annunciato un gruppo di studio per definire i riferimenti normativi ma non sarà facile. I sindacati chiedono regole nella contrattazione nazionale mentre le imprese vogliono che la materia sia trattata dagli accordi aziendali per evitare rigidità.
Intanto si va in ordine sparso. L’esperienza di Alcantara, nel settore tessile, dà il termometro della situazione. «Le videochiamate con i clienti all’estero fanno risparmiare tempo ma, per arrivare a un accordo commerciale, la presenza è indispensabile» dice il presidente Andrea Boragno, e cita un caso: «Dovevo vedere un cliente in Cina, ma siccome non si può viaggiare ho preferito spostare la riunione a Dubai invece che farla sul web. In presenza si è più efficaci».
Nei gruppi bancari si valuta come gestire la fase di uscita dalla pandemia. In Intesa Sanpaolo, sono 81.000 gli abilitati allo smart working (il 75%) su un organico di 105.000. Unicredit immagina un’evoluzione del modo di lavorare, un modello flessibile che combini la presenza in ufficio con l’attività da remoto, nei limiti delle normative di settore. Ad aprile 2020, con un accordo sindacale, è stata prevista la possibilità di lavorare in smart working sino a due giornate alla settimana. Ma il futuro, come la lotta all’evoluzione del virus, è tutto da inventare.