La recessione della «locomotiva d’Europa» crea problemi al nostro export, dal settore dei componenti per l’auto alla chimica, ma anche al turismo. Strategie per invertire la crisi? Bisogna affrancarsi dalla dipendenza esclusiva di Berlino, diversificando mercati di sbocco delle produzioni nazionali.
Se si ferma la Germania sono guai per i tedeschi, e su questo pochi dubbi, ma anche per il resto d’Europa e soprattutto per l’Italia che trova nel Baden-Württemberg, nella Baviera, nella Renania Settentrionale-Vestfalia, nella Bassa Sassonia e nell’Assia i siti dove concentrare buona parte della sua esportazione. Quante volte economisti ed esperti di geopolitica ci hanno ripetuto come un mantra quest’analisi. Solo che la locomotiva di Berlino è (quasi) sempre andata a gonfie vele, grazie alla capacità di esportare in tutto il mondo e anche alla strategia delle aziende tedesche di usare semilavorati e prodotti intermedi realizzati nel resto d’Europa, trainando così senza troppa fatica i vagoni «sovrappeso» dei vari Stati dell’Unione. Poi succede, come da non pochi mesi a questa parte, che persino i treni più efficienti si blocchino, magari per cause esogene come il conflitto in Ucraina che ha provocato un rialzo enorme dei costi dell’energia per le super-energivore aziende della manifattura tedesca. E «l’alert» diventa realtà.
La Germania è in recessione, l’Ifo, tra i maggiori centri di ricerca economica del Paese, prevede un Pil 2023 in calo dello 0,4 per cento, rischiando di portare sott’acqua lo storico partner italiano, o meglio, di far boccheggiare una miriade di piccole medie imprese del Nord-est che storicamente ha trovato nell’industria pesante delle terre che superano i confini di Svizzera e Francia uno «sfogo» naturale della sua produzione. Nel 2022 l’export verso Berlino ha raggiunto quota 77,5 miliardi di euro (+15,8 per cento sul 2021) e rappresenta il 12,4 per cento del totale delle nostre vendite all’estero. Freni, dadi e bulloni, ma anche motori e pneumatici sono il cuore della componentistica che tradizionalmente le case automobilistiche tedesche acquistano in Italia, e non solo: ci sono pure tessuti, chimica e farmaceutica, per un interscambio consolidato e in crescita costante. La parte da padrone la fanno le aziende lombarde, ma si difendono bene anche i gruppi veneti, le piccole e medie imprese emiliano-romagnole e piemontesi.
«Nei primi 5 mesi 2023 (gennaio-maggio) l’export verso la Germania si è fermato alla soglia dei 33 miliardi di euro con una riduzione dell’0,9 per cento rispetto allo stesso periodo dello scorso anno» spiega a Panorama Fedele De Novellis, partner di Ref ricerche, l’istituto indipendente specializzato nei temi di analisi economica. «Non sono numeri eclatanti, ma se consideriamo l’inflazione vicina al 10 per cento e ragioniamo in termini di volumi, ci rendiamo conto che il deficit è decisamente più pesante. La guerra collegata alla crisi energetica e al forte legame di Berlino con i Paesi dell’Est ha sicuramente rallentato la macchina produttiva tedesca (l’ultimo dato di giugno parla di una produzione industriale in calo dell’1,5 per cento contro il -0,4 per cento previsto, ndr) e di conseguenza la domanda verso l’esterno si è ridotta». Dove? «Ne risentono» continua De Novellis «tutte le produzioni legate all’automotive, ma anche altri prodotti utilizzati dall’industria tedesca: in primis le esportazioni di metalli e prodotti in metallo, calate del 16,5 per cento, così come gli articoli in gomma e materie plastiche (-4,7 per cento), carta, mobili e sostanze chimiche, mentre vanno decisamente meglio alimentare e mezzi di trasporto».
L’inflazione tedesca ha però una peculiarità, probabilmente una conseguenza diretta delle caratteristiche del suo sistema di contrattazione. «Mentre in Italia e Spagna le reazioni sui livelli di retribuzione sono state piuttosto blande, insomma i salari non sono cresciuti in linea con il carovita, in Germania il livello medio delle buste paga si è comunque alzato, e questo sta portando a una perdita di competitività dell’apparato industriale tedesco verso gli altri Paesi dell’eurozona».
Discorso a parte merita il turismo: dopo anni di boom infatti si avvertono i primi segnali di flessione. I conti si fanno alla fine certo ma se alzano le mani in tanti qualcosa vorrà pur dire. «C’è un calo rispetto agli scorsi anni» ha sottolineato di recente il presidente di Federalberghi Veneto, Massimiliano Schiavon «che forse rappresenta un ritorno alla normalità dopo alcune stagioni in cui la voglia di viaggiare prevaleva sul resto». Più acuto il grido d’allarme che arriva dalla Romagna: «Un tedesco su quattro» avvertiva qualche settimana fa Patrizia Rinaldi della Federalberghi locale «ha cancellato le prenotazioni per il mese di luglio e a giugno era andata pure peggio».
Torniamo alla manifattura. Un caso di scuola è quello che riguarda il gruppo Agnelli, leader nel settore dell’estrusione dell’alluminio. L’Agnelli bergamasco è il presidente di Confimi, l’associazione che rappresenta circa 45 mila Pmi della manifattura, e da anni ha nel mercato tedesco uno dei principali canali di sbocco. «Certo» dice Paolo Agnelli «adesso che si è fermato il boom di ordinativi interni, anche noi risentiamo del calo della domanda tedesca. In termini di volumi la riduzione è di circa il 20 per cento, legata soprattutto all’automotive. In parte è compensata dalla maggior richiesta di alluminio per pannelli solari, ma il mio timore è che la crisi della Germania abbia origini più profonde. Ho l’impressione che a Berlino siano in mezzo al guado, nel senso che sono stati tra i maggiori sostenitori di quella che io ritengo una folle corsa verso l’elettrico che però necessita di enormi investimenti, dall’altro lato si stanno convincendo che alla fine le alternative, come i carburanti sintetici (l’e-fuel), salveranno i motori a benzina e diesel scavallando il 2035. Per questo motivo rallentano la spese per la transizione».
«Il rapporto commerciale con i tedeschi» riflette lo storico dell’economia Giulio Sapelli «è strettamente legato al Secondo dopoguerra e ai prestiti del piano Marshall con i quali abbiamo finanziato il nostro grande boom economico e ricostruito parte della Germania. Poi pian piano la situazione di forza si è capovolta ma grazie alla grande capacità di innovazione tecnologica delle nostre piccole e medie imprese abbiamo continuato a produrre, penso alle macchine utensili e agli stampisti, e a esportare in Germania». La situazione geopolitica in seguito alla guerra in Ucraina e alla crisi energetica ha però cambiato di nuovo le carte in tavola. «L’obiettivo degli Stati Uniti è chiaro» continua l’economista. «L’amministrazione Biden vuole indebolire la Germania in modo da essere l’unico interlocutore al tavolo delle trattative con la Cina e le conseguenze a cascata ricadranno su di noi».
Vie d’uscita? «Diversificare, cercare di esportare in Paesi differenti e creare con loro un rapporto commerciale e non solo un legame dovuto al basso costo del lavoro, come è accaduto con alcuni Stati dell’Est come la Romania. Penso alla parte danubiana e balcanica del Continente. Soprattutto all’Cecoslovacchia che vanta un’importante tradizione industriale, ma anche alla Polonia o alla stessa Ungheria». La Repubblica Ceca, per esempio, ha un forte tessuto manifatturiero legato alla produzione di auto e macchinari, di prodotti chimici e dell’elettronica e uno storico legame di import-export con la Germania. Indirizzarsi là sarebbe naturale.
«Va nella giusta direzione» conclude Sapelli «l’iniziativa del ministro Adolfo Urso di rilanciare una nuova industria 4.0 sulla falsariga di quanto aveva fatto Carlo Calenda. Per attuare strategie e diversificare le nostre importazioni servono però investimenti e non bisogna aver paura di fare debito giusto per innovare. E da questo punto di vista per l’Europa, ma ancor più per l’Italia, Christine Lagarde rappresenta un problema, e l’incapacità della Bce di capire che non siamo davanti a un fenomeno inflazionistico e che la cura a suon di rialzi dei tassi non porta risultati è preoccupante». n
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