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Quanto ci costa la Green economy

Quanto ci costa la Green economy

Non si tratta di opporsi alla transizione ecologica, ma di conoscere la verità sull’impatto economico che comporta nelle nostre vite, al di là delle narrazioni catastrofiste o della propaganda su adeguamenti indolori del sistema. Dai consumi diretti alle materie prime necessarie a produrre le merci, ecco il prezzo che dobbiamo essere disposti a pagare per una «rivoluzione verde».

  • Quanto ci costa la Green economy
  • Più che rinnovabili, futuribili

Pagheremo caro, pagheremo tutto. Il prossimo inverno avremo bollette di luce e gas fuori controllo, il pieno di benzina e gasolio sta tornando ai livelli di prima della crisi pandemica, mentre le automobili ibride o elettriche costano nettamente più dei modelli inquinanti e cibi e merci «plastic free» saranno più cari, se non per il consumatore finale, sicuramente per il produttore. Poi si fa appena tempo a lanciare la campagna planetaria di lotta contro i cambiamenti climatici ed ecco che arriva la crisi dei microprocessori e delle materie prime necessarie alla famosa Transizione ecologica.

Poi, certo, la green economy sta creando quasi da zero decine di migliaia di nuovi occupati, ma non sono necessariamente quelle stesse persone che il lavoro lo stanno perdendo o lo perderanno perché sono impiegati nella old economy, quella pesante e che brucia carbone. Se andrà bene, anche dal punto di vista occupazionale, la svolta green sarà un gioco a somma zero. Ma come in tutte le grandi rivoluzioni, ci saranno sommersi e salvati, vincitori e vinti, nuovi miliardari e nuovi poveri.

Facce nuove, vecchi arnesi. Come in politica, anche nei fatti economici non sempre il nuovo ha un cuore giovane. Se si legge il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) si scopre che ben 57 miliardi di euro (su 221) sono destinati alla riconversione energetica. Il nostro paesaggio si popolerà di impianti eolici e fotovoltaici, oltre che di centrali elettriche di ultima generazione. Scompariranno gradualmente le vecchie e odiose ciminiere, ma sarebbe ipocrita ignorare che attualmente il 70% della produzione termoelettrica nazionale proviene dal gas e che il petrolio è ancora una fonte irrinunciabile.

Il problema è che per costruire pale eoliche, pannelli e batterie è necessario utilizzare rame, acciaio e una mezza dozzina di metalli pesanti, che stanno trascinando al rialzo i prodotti metallurgici. E per non disturbare la narrazione verde, meglio far finta di non sapere che tutto questo ben di Dio «ecologico» continua a viaggiare su navi, treni e camion alimentati alla vecchia maniera. E chiudere gli occhi sul problema dello smaltimento dei vecchi pannelli solari di prima generazione.

Mentre le batterie al litio, che stanno soppiantando quelle tradizionali in tutti gli usi, dall’impianto fotovoltaico all’automobile, costano mediamente il doppio e il prezzo del litio stesso è triplicato negli ultimi nove mesi (fonte, Benchmark mineral intelligence). E tutti i produttori segnalano che la colpa è del boom dell’auto elettrica.

Costose scatolette. «C’è un eccessivo clamore sulle auto elettriche, più veicoli elettrici produciamo più salgono le emissioni di anidride carbonica». Parola di Akio Toyoda, 65 anni, numero uno della Toyota, all’avanguardia nella produzione di auto ibride ed elettrificate, come nella sperimentazione dei motori a idrogeno. A Natale scorso, Toyoda ha spiegato che la produzione di batterie elettriche raddoppia le emissioni di CO2 rispetto a quella dei motori che oggi consideriamo più inquinanti, e ha concluso il suo ragionamento con una previsione catastrofica: «I politici che ci chiedono di liberarci di tutte le auto a benzina non so se capiscano davvero che cosa significa, perché l’attuale modello di business dell’industria automobilistica collasserà».

A metà maggio un altro manager dell’auto esperto e non certo conservatore come il portoghese Carlos Tavares, 63 anni, ha ammesso: «È difficile vendere un’auto a batteria da 30.000 euro quando le persone possono acquistare il corrispondente modello tradizionale a metà prezzo». Oltre a chiedere adeguati sussidi pubblici con la scusa che «l’auto elettrica è imposta dai governi nazionali», il capo di Stellantis ha fornito anche un’elementare lezione di pragmatismo facendo notare che «se offri una mobilità pulita accessibile solo agli acquirenti più abbienti, non avrai un impatto significativo sulle emissioni di carbonio».

Il verbo di Tavares non è poi così lontano neppure dai volantini che il collettivo marxista Ecologia politica ha distribuito a Torino nel corso dello sciopero del 12 ottobre, nei quali si parlava di «Transizione ecologica di classe». Un fenomeno già sperimentato in questi ultimi vent’anni sul cibo, con i prodotti «bio», «slow» e a «chilometri zero» che finiscono per costare ben di più di quelli tradizionali.

Il fenomeno è già chiaro se si guardano i numeri delle vendite di auto a batteria. Nei primi nove mesi del 2021, in Italia sono state immatricolate 47.242 auto elettriche, ovvero il triplo di un anno prima, ma la quota sul totale del parco auto circolante arriva appena all’8 per cento. Eppure, pare non si parli d’altro. Ma è interessante notare che due auto elettriche su tre sono al Nord, un quarto al Centro e neppure un decimo al Sud e nelle Isole.

Non esistono pasti gratis. Sembra chiaro che la spiegazione di questa sorta di green divide più nel reddito disponibile che non nella diversa sensibilità ecologica. Quanto alle motorizzazioni ibride, che definire ecologiche è comunque generoso, vengono proposte a prezzi mediamente superiori del 25-30% rispetto ai corrispondenti modelli diesel o benzina.

La colpa degli aumenti viene ovviamente data in primis all’egoismo dell’Opec, l’organizzazione dei produttori petroliferi, che non pompa il greggio necessario alla ripresa economica. Il che comporta anche gli aumenti delle bollette per le forniture di energia, come si racconta nel servizio che segue, con il pericolo di far schizzare al rialzo l’inflazione (a sua volta pericolosa per lo spread).

Tra i tanti settori che rischiano di essere travolti dal rincaro del petrolio c’è quello del trasporto aereo, con i prezzi dei voli già aumentati in tutto il mondo. Anche qui, colpa di Greta Thunberg? Vendetta oleosa di emiri, ayatollah e oligarchi? Lacrime di coccodrillo di Stati che da un lato ci rieducano, dall’altro non sanno rinunciare a tasse esose sui consumi più facili da colpire come quelli legati ai trasporti? C’è del vero in ognuna di queste esagerazioni, ma ci sarebbe anche spazio per la politica, e politica con la «P» maiuscola, se si sapesse andare oltre buonismi e conformismo ambientalista per spiegare a consumatori e cittadini che la strada della conversione ecologica non sarà né breve né gratuita.

Almeno i delfini si salveranno. La buona notizia, con i prezzi del gas alle stelle, è che per una volta l’Italia è stata lungimirante. Lo ha confermato martedì 19 ottobre Marco Alverà, amministratore delegato di Snam, spiegando che «l’Italia è in posizione di forza rispetto ad altri Paesi europei, avendo gli stoccaggi pieni per quasi il 90% e un sistema regolato (anche su base consortile e indipendente, ndr) che funziona bene».

Ma soprattutto, è stata davvero una fortuna che a maggio sia slittata ancora una volta (al 2023), principalmente grazie alla Lega e al ministro Giancarlo Giorgetti, l’applicazione della direttiva europea sull’etichettatura ambientale degli imballaggi, che fa parte della grande battaglia europea per un mondo «plastic free», a cominciare dalla plastica monouso. Intento ovviamente giusto perché nessuno, almeno nelle grandi democrazie occidentali, vuole più vivere in un mondo dove i delfini muoiono soffocati per la plastica e i letti dei fiumi sono tappezzati di flaconi e flaconcini, ma anche qui ci sono dei costi.

L’Unione europea vuole ridurre i rifiuti plastici del 50% almeno entro il 2025 (che è domani) e dell’80% entro il 2030, ma Confindustria, che lanciava allarmi dal 2019 sul rischio di aumenti dei prezzi per via di packaging verdi, pur essendo d’accordo con gli obiettivi delle direttive Ue chiede un approccio «graduale e ragionato». Ovvero, meno divieti e multe, specie laddove alla plastica non sono presenti alternative, e più prevenzione attraverso innovazione, design ecologico, incremento e miglioramento di raccolta e riciclo. Tutto questo, ancora una volta, a riprova che si fa presto a dire «green», ma se poi tutto costa di più diventiamo come i celiaci, che per mangiare devono spendere quasi il doppio degli altri.

E se per mangiare bisogna lavorare, anche qui va detto che tutte le «fanta-stime» che circolano sui milioni di posti di lavoro offerti dalla transizione ecologica sembrano solo zuccherini. Il settore auto, uno dei traini dell’industria mondiale, sta lanciando diversi allarmi. In Italia, per le crisi dei microchip, Stellantis ha appena spostato dal 16 novembre al «2022 inoltrato» il lancio della Maserati Grecale.

In tutti i sei stabilimenti italiani, gli operai dell’ex Fiat continuano a subire lunghi periodi di cassa integrazione. E mentre si è ancora in attesa del piano industriale di Tavares, che all’atto della fusione Psa-Fca si era impegnato con i mercati a portare a casa 5 miliardi di risparmi all’anno, la scorsa settimana il quotidiano economico Handelsblatt ha riportato che «la lentezza nella transizione ecologica» mette a rischio 30.000 lavoratori Volkswagen su 120.000.

In democrazia, ogni rivoluzione va gestita, accompagnata, spiegata onestamente a partire dai costi. Se non lo si fa neppure per una battaglia giusta, come quella contro il riscaldamento globale, si rischia che una lunga stagione di rincari buchi le tasche dei cittadini e sfondi i bilanci degli Stati.

Non di tutti ovviamente, perché Paesi come Cina e Brasile, dopo anni di dumping sociale ed economico, si sono impegnati ad arrivare al traguardo delle «emissioni zero» nel 2060, mentre l’Europa, di questo passo, lo farà ben prima del 2050 previsto. Insomma, c’è anche Tafazzi, dietro al cartone animato di Greta Thunberg che «le canta ai potenti».

Più che rinnovabili, futuribili

Quanto ci costa la Green economy
(iStock).

Tutti noi le chiamiamo «rinnovabili», ma in realtà l’aggettivo più corretto è «futuribili». Da oltre due decenni le energie basate su sole, vento e acqua sono l’ossessivo oggetto dei desideri del main stream culturale, una macchina da guerra che schiera i principali governi del globo e una selva di rumorosi attivisti mediatici, tipo Greta Thunberg. Ma oggi le fonti di energia pulita, purtroppo, contano ben poco nel bilancio ambientale del mondo.

Tutti noi, ovviamente, vorremmo non si bruciasse più un grammo di carbone e che non esistesse nemmeno una ciminiera. Ma il Center for climate and energy solutions, centro studi ambientale statunitense, stima che oggi il 79,7% dell’energia consumata sia ancora di origine fossile, quindi basata su carbone, gas e petrolio.

Attenzione, però, a farsi illusioni sul restante 20,3%, perché non è tutto prodotto da fonti rinnovabili. Anzi, il 7,5% dell’energia mondiale deriva da quella che i tecnici chiamano «biomassa tradizionale»: legna e letame bruciati per cuocere cibi e per riscaldamento, con effetti inquinanti e ben poco ecologici specialmente in Africa e Asia. Un altro 2,3% viene dalle centrali nucleari. Significa, in definitiva, che oggi solo il 10,5% dell’energia consumata nel mondo deriva da solare, eolico e idrico, cioè le vere fonti «rinnovabili». Ed è per questo che oggi restano desolatamente «futuribili».

Dopo decenni di campagne politiche e culturali, dopo mille dibattiti e accordi internazionali, e soprattutto dopo la messa in campo d’investimenti per miliardi di dollari e di euro, ancora oggi le rinnovabili valgono appena un misero decimo del totale dell’energia prodotta in tutto il mondo.

Basta pensare che dal 2015 l’Accordo di Parigi obbliga oltre 100 Stati alla transizione verso la carbon neutrality, con la progressiva abolizione dei combustibili di origine fossile: la maggior parte dei Paesi occidentali dovrebbe chiudere ogni impianto inquinante entro il 2050, mentre altri Stati definiti «arretrati», come Cina e Brasile, hanno come scadenza il 2060. Quanto all’Europa, Bruxelles ha perfino deciso di accelerare i tempi dell’Accordo di Parigi, e ha da poco lanciato il Green deal, che entro il 2030 vuole aumentare dal 40 al 55 per cento il taglio delle emissioni, investendo mille miliardi di euro in dieci anni.

Anche il Recovery fund, varato nel 2020 dall’Unione europea contro la crisi economica causata dal Covid, destina il 37% dei fondi (ben 250 miliardi su 672) alla «transizione verde» basata sulle energie rinnovabili. Eppure i risultati, fin qui, sono stati davvero modesti. E questo nonostante le energie rinnovabili siano molto convenienti rispetto a quelle fossili.

Soprattutto tra 2020 e 2021, il mix tra la forte ripresa della produzione industriale innescata dalla fine del blocco imposto dal Covid e le impennate stagionali dei consumi energetici, per il caldo estivo e poi per i primi freddi, hanno spinto in alto i prezzi di petrolio, gas e carbone: dallo scorso gennaio fino alla metà di ottobre, il gas naturale è quasi raddoppiato, da 60 a oltre 100 euro per megawatt/ora; da luglio il brent è aumentato da 65 a oltre 82 dollari a barile, ed è ai massimi dal 2014; il carbone oggi supera i 50 dollari a tonnellata, prezzi mai visti da 15 anni.

Ma nemmeno i rincari delle materie prime inquinanti sono serviti. Anche se i prezzi alla produzione le ha rese molto più convenienti delle fonti fossili, nel 2021 le rinnovabili non sono riuscite a sfruttare minimamente il vantaggio, e soltanto per colpa di fattori climatici: un’estate poco ventosa ha limitato circa del 30 per cento la produzione di energia eolica in Nord Europa, mentre nell’America del nord e in America Latina la siccità ha frenato del 20% l’idroelettrico.

Purtroppo, anche dopo decenni di uso, la dipendenza da fattori climatici resta la debolezza intrinseca delle fonti pulite. L’altro fattore che ne limita l’espansione è l’effetto Nimby («Not in my back-yard»), e cioè l’avversione di tante comunità alla costruzione d’impianti nelle vicinanze: anche i campi solari e le pale eoliche non piacciono così tanto.

Per questo negli ultimi anni le seconde vengono costruite soprattutto in alto mare, dove però costano dal 20 al 30 per cento in più (le strutture devono essere fissate ai fondali) e dove la durata media di vita degli impianti viene ridotta dal salmastro, che intacca le pale anche quando le apparecchiature sono protette con materiali plastici. Un terzo freno alle fonti rinnovabili viene dai grandi investimenti fatti fin qui nelle fonti fossili, che in tutti i Paesi devono comunque essere ammortizzati.

C’è poi una quarta questione, che riguarda la distribuzione geografica delle fonti pulite. Perché è vero che nel 2020, in Europa, le rinnovabili sono cresciute e valgono il 38 per cento dell’elettricità prodotta, battendo per la prima volta le fonti fossili, scese al 37 per cento. Il resto, un quarto del totale, è prodotto dalle centrali nucleari.

Tra i Paesi dell’Ue, però, le differenze sono vistose: alcuni sono già ben oltre la metà di produzione energetica da fonti «green», come l’Austria (al 79%), la Danimarca (al 78) e la Svezia (al 68). Tra i Paesi più grandi e industrializzati, la Germania è al 45%, la Spagna al 44, la Francia al 24 (ma ha un nucleare che pesa per il 67%). In Italia, dove dal referendum abrogativo del 1986 non è più attivo alcun impianto nucleare, le energie rinnovabili arrivano al 37.

Il vero problema è che l’Europa non è il mondo. Perché se l’Occidente è sensibile alle tematiche ambientali, ci sono anche governi che, non dovendo rispondere a un’opinione pubblica, sono molto meno attenti ai temi ambientali e consumano sempre più carbone. La palma del peggiore – l’ha segnalato Panorama un paio di settimane fa – va alla Cina che, contravvenendo agli impegni dell’Accordo di Parigi, continua a costruire centrali a carbone. Tra 2019 e 2020 ne ha aperte circa 80, quasi una a settimana.

Ora, in vista del Cop26 di Glasgow, l’assise internazionale dove si parlerà di energia e inquinamento, alcuni Stati (tra cui Germania, Gran Bretagna e Francia) si sono impegnati a non costruire più centrali a carbone. Ma Greenpeace denuncia che la Cina ne ha varate 24 anche nei primi sei mesi del 2021. Ai primi di ottobre, poi, la forte richiesta di energia dalle industrie ha spinto Pechino a ordinare alle miniere la consegna aggiuntiva di 150 milioni di tonnellate di carbone entro dicembre: è il 5% in più di una produzione annua che vale almeno 3 miliardi di tonnellate.

L’ultimo numero del settimanale The Economist stima che l’elettricità prodotta dalle oltre 400 centrali a carbone cinesi (per un confronto, in Italia oggi ne restano attive appena otto) rappresenti il 50-60% del totale mondiale di quel tipo di energia inquinante. Fino a quando nessuno costringerà Pechino a più miti consigli, insomma, un mondo «rinnovabile» resterà lontano. Ancor meglio: futuribile.

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