La Politica agricola comune ha 60 anni. Ma nel confronto di interessi tra Nord e Sud del continente per le nostre produzioni – dal vino ai pomodori, dai formaggi alla zootecnia – la prospettiva è quella di gravi ridimensionamenti.
Compie sessant’anni (il 1° gennaio 2022) la Politica agricola comune, la Pac, decantato pilastro dell’Europa. Si è però anche trasformata in un «pacco» per l’Italia. Tre anni ci sono voluti per scrivere quella che vale dal 2023 al 2027. Un disastro. Eppure Paolo De Castro, già ministro agricolo, coordinatore dei socialisti e democratici a Strasburgo su questi temi, sostiene: missione compiuta.
Pesa una trasversale ed ecumenica «maggioranza Ursula». Ma ci sono elementi che rischiano di mettere in ginocchio il nostro agroalimentare (vale un quarto del Pil, un export da 53 miliardi di euro, tenendo conto dei falsi e delle imitazioni ci sono altri 100 miliardi da riconquistare) tant’è che parlando di vino De Castro ha dovuto ammettere: «Dobbiamo impedire che si diano pagelle sul cibo, vogliamo difendere la dieta mediterranea».
Sotto attacco ci sono le nostre filiere di maggior valore: il riso, l’olio, la zootecnia che significa anche salumi e formaggi, il pomodoro, il vino che da solo vale 13 miliardi di euro. Per il tabacco stanno preparando l’azzeramento. La presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha un solo obiettivo: il «green». E ha dato mandato al suo vice Franz Timmermans di obbligare l’agricoltura a essere completamente verde. O a non essere.
L’olandese Timmermans la vede così: «Dedicheremo più terreni alla biodiversità, ricompenseremo gli agricoltori che fanno il possibile per clima e natura e più fondi affluiranno alle piccole aziende». Tradotto: sottraiamo terra alla coltivazione (in particolare alle risaie), compensiamo chi smette di coltivare, finanziamo ampiamente il latifondo del Nord Europa e trasformiamo i piccoli coltivatori in operai ambientali. Eppure gli ecologisti di tutto il continente, compresi i Greta boys, dicono che questa politica tradisce l’ambiente. Evidentemente non si sono posti il problema di cosa si mangia.
La nuova Pac riduce i fondi all’agricoltura? Il professor Angelo Frascarelli dell’Università di Perugia stima che da qui al 2027 gli stanziamenti dell’Europa si ridurranno del 10,2%, lasciando per strada oltre 38 miliardi di euro. All’Italia va peggio perché perdiamo il 15% dei contributi. Avremo poco più di 35 miliardi e dobbiamo mettercene altri 15 nostri.
Ma il dato più preoccupante è che i «titoli Pac» italiani sono stati portati allo stesso valore di quelli di Romania, Bulgaria e Lettonia e non c’è nessuna differenza di sostegno tra chi accudisce gli ulivi secolari dell’Umbria o del Chianti, dove si lavora solo a mano, e chi (il latifondo) coltiva grano nelle immense pianure francesi o tedesche dove giganteschi trattori (inquinanti) fanno raccolto su migliaia di ettari.
E del pari non c’è nessuna diversità tra allevare maiali semibradi come la Cinta senese, la Mora romagnola o il Nero dei Nebrodi e gli allevamenti suini intensivi tedeschi con gli operai immigrati che nei mega-macelli lavorano alle catene di «smontaggio» delle carcasse animali per tre euro l’ora, dormendo in baraccopoli. Egualmente quando la Pac targata von der Leyen e illustrata dal suo ventriloquo, il commissario all’agricoltura polacco Janusz Wojciechowski, vuole penalizzare la zootecnia non si domanda se le vacche da latte servano per produrre Parmigiano reggiano, Grana padano o gli altri 50 formaggi Dop italiani.
Luigi Scordamaglia, consigliere delegato di Filiera Italia, fa notare: «Questa Pac ha un approccio ideologico e prevede un pericolo enorme per l’Italia: è l’aggancio al Green deal che a sua volta contiene il progetto “Farm to Fork” e si trascina il Nutri-Score, la famigerata etichetta a semaforo. Circola nelle stanze di Bruxelles uno studio che l’impatto del Green deal sull’agricoltura potrebbe provocare una perdita di produzione tra i 10 e il 20%. Significa che l’Europa si avvia ad abbandonare questo settore economico. Vogliamo sapere se ciò che importiamo ha gli stessi rigidissimi standard imposti ai nostri agricoltori e come si pensa di alimentare le filiere dei prodotti Dop e Igp che sono nostre produzioni d’eccellenza».
Una simile politica agricola può rappresentare una liquidazione dell’agroalimentare? Il pericolo c’è, tanto che Massimiliano Giansanti, presidente di Confagricoltura, è allarmato: «Da conti fatti l’Italia perde 6,2 miliardi di contributi. Con la Pac chi fa impresa viene penalizzato e il carico burocratico diventa enorme. Vogliamo rassicurazioni sull’impatto che il Green deal avrà sull’agricoltura».
Uno studio francese ha calcolato che con queste nuove norme le imprese medio-grandi possano perdere fino al 25% del reddito. Per tre ragioni. La Pac «ideologica» partorita dall’Europa ha introdotto un nuovo pilastro di finanziamento che è la cosiddetta «condizionalità sociale». Le aziende vengono punite o premiate se rispettano o meno i contratti di lavoro e non hanno impatti sociali negativi. Per finanziare questo asse sono stati utilizzati soldi dal primo asse, cioè dai contributi alla produzione e si sono rimodulati quelli per il fondo per lo sviluppo rurale (importantissimo per l’Italia). Ebbene queste risorse sono modulate in rapporto all’impatto ambientale che hanno le diverse coltivazioni.
Si arriva però ad alcuni paradossi. Per esempio, la zootecnia italiana – la più verde d’Europa – risulta la più penalizzata. Come ricorda Scordamaglia vale 30 miliardi di euro, ha un impatto scientificamente provato che è molto ridotto, ma viene il sospetto che si cerchi di penalizzarla per lasciare spazio a chi vuole produrre e vendere in Europa la carne sintetica: «Il principale nemico del nostro sviluppo e della rivoluzione verde è l’ideologia. Nessun’altro settore è attaccato come il nostro con un tale approccio; noi invece siamo pronti a confrontarci con numeri e dati che spiegano quanto sia distintivo il nostro modello di allevamento».
E come sostiene Gian Marco Centinaio, sottosegretario della Lega al ministero dell’Agricoltura: «In Italia la zootecnia è una filiera di qualità e già sostenibile, rispettosa anche del benessere animale. Se chiediamo sforzi importanti agli operatori allora occorrono fondi sufficienti per aiutarli a centrare gli obiettivi. Decisiva è poi la reciprocità in Europa, non possiamo permetterci di importare prodotti con standard più bassi rispetto ai nostri».
Bisogna dunque capire cosa vuole fare l’Europa. Ma non lo spiega, per fare un altro esempio, a veneti e friulani che vedono il Prosecco insidiato dalla richiesta della Croazia di tutelare il nome Prosek, un vino passito che nulla a che a vedere con le nostre bollicine. Il business Prosecco vale 3 miliardi di euro ed è appetitoso. Ma Bruxelles tace. In compenso però impone – ecco la Pac verde e un anticipo di quello che può succedere con il Nutri-Score – l’etichetta nutrizionale al vino: si dovranno dichiarare le calorie, i componenti e ci dovranno essere annunci dissuasivi al consumo. Giusto per tutelare i consumatori ma non il prodotto.
Mentre il Prosecco è esposto alla guerra interna europea il nostro vino ha perso il 36% dopo la Brexit (la Gran Bretagna è il terzo mercato per l’Italia) e nel frattempo Boris Johnson ha fatto un accordo commerciale con Australia e Nuova Zelanda. Del pari, l’Europa è muta sulla massiccia importazione di pomodoro cinese che sta distruggendo il più importante comparto agricolo nazionale. Il nostro «oro rosso» è in gravissima crisi per due motivi: manca l’acciaio per fabbricare i barattoli della conserva e tonnellate di pomodori marciscono così nei campi e quelli d’importazione vengono comprati massicciamente dalla grande distribuzione.
Rischia il collasso un comparto che vale 3,5 miliardi, di cui 1,8 di export. Il ministro agricolo penstellato Stefano Patuanelli però plaude: «Ora spetta agli Stati membri e ai produttori agricoli trarre beneficio dalla nuova Pac. Il prossimo passo sarà quello di costruire i piani strategici nazionali che dovranno essere incentrati sulla semplicità. La “condizionalità sociale” è uno dei punti qualificanti della nuova politica, insieme agli interventi previsti per la transizione ecologica del nostro sistema agroalimentare». Che poi i campi diventino foreste incolte è un effetto trascurabile.
