Domanda inevitabile dopo i dati Istat sul calo di nascite in Italia. Avremo sempre meno giovani e sempre più anziani. Mentre diminuisce anche la popolazione che produce e contribuisce al welfare. Per correre ai ripari, occorre sostenere la natalità, far lavorare più persone (per esempio le donne) e ridurre la spesa assistenziale.
«Ma chi ci pagherà le pensioni quando saremo vecchi?». Bella domanda. Che frulla nella testa degli italiani dopo aver letto gli ultimi dati dell’Istat sul calo di nascite e sulla progressiva diminuzione della popolazione nel nostro Paese. Ci aspetta un futuro con tanti anziani e pochi giovani, con una quota di persone in età da lavoro sempre più bassa rispetto ai pensionati. Di conseguenza si allungano ombre sulla sostenibilità del sistema previdenziale.
Però possiamo correre ai ripari, cercando di far lavorare più italiani (oggi in troppi non risultano occupati) e di spendere meglio i soldi che lo Stato butta nel calderone della spesa assistenziale. In questo prospettiva il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) sarebbe un’occasione da non sprecare. L’Italia non è sola nella diminuzione delle nascite, un fenomeno che riguarda tutti i Paesi più avanzati. Il problema è che in Italia la tendenza ha imboccato una traiettoria molto pericolosa.
«Da un punto di vista demografico il nostro è uno dei Paesi più squilibrati al mondo» sostiene Alessandro Rosina, professore ordinario di Demografia e statistica sociale all’Università Cattolica di Milano e autore del libro Crisi demografica. Politiche per un paese che ha smesso di crescere. «L’Italia è stata la prima nazione che, negli anni Novanta, ha visto gli ultra 65enni superare per numerosità i ragazzi sotto i 15 anni. Ed entro il 2050 gli ultra 65enni saranno tre volte gli «under 15». Ora gli anziani rappresentano il 22% degli italiani e fra trent’anni saliranno a circa il 33%».
A causare questi squilibri è il crollo della natalità: il numero medio di figli per donna è sceso nel 2020 in Italia a 1,24, mentre nell’Unione europea è pari a 1,53 e in Francia a ben 1,87. Così nel 2020 sono nati in Italia 405.000 bambini, un minimo storico. Nel 2010 i fiocchi rosa e azzurri erano più di 500.000, mentre nell’ormai lontano 1964 si era arrivati ai record di oltre un milione di nascite. E le previsioni restano basse, perché le nuove generazioni sono numericamente più piccole di quelle che le hanno precedute e più di tanto non possono figliare.
In più c’è un fenomeno da considerare: molti, troppi giovani se ne vanno a lavorare all’estero e mettono radici fuori dall’Italia. Di conseguenza, in mancanza di qualche intervento correttivo, la popolazione italiana è destinata a scendere dagli attuali 59 milioni di residenti a 54 milioni nel 2049. A questo fenomeno si aggiunge l’allungamento della vita e quindi, mentre in Europa l’età mediana della popolazione è salita a 43,9 anni, in Italia tocca i 47,2 anni.
Ora a preoccupare di più gli esperti è il fatto che l’onda lunga della denatalità inizia a intaccare la fascia di popolazione che lavora. «È così» sottolinea Rosina. «Il fatto nuovo è che si inizia a indebolire la fascia di persone che produce ricchezza, paga le tasse e mantiene il welfare, mentre parallelamente aumentano gli anziani cui va pagata la pensione e garantita l’assistenza sanitaria». Anche l’Ocse, l’organizzazione che riunisce i Paesi più avanzati, ha lanciato l’allarme: Nell’ultimo rapporto Pensions at a glance 2021 gli analisti Ocse segnalano che in Italia «l’invecchiamento della popolazione sarà rapido e nel 2050 ci saranno 74 persone di età pari o superiore a 65 anni ogni 100 persone di età compresa tra i 20 e i 64 anni».
«Il sistema è a rischio» ammette Antonietta Mundo, ex capo del Coordinamento statistico-attuariale dell’Inps nonché membro di diversi comitati e commissioni presso il ministero del Lavoro, l’Istat, l’Inail e la Commissione europea. L’esperta di statistica ha coordinato e partecipato a progetti europei su temi previdenziali e per Panorama ha realizzato una simulazione che proietta un’immagine più realistica e apparentemente meno drammatica della situazione: invece di considerare come popolazione attiva, in età da lavoro, quella compresa tra 15 e 64 anni, ormai superata, la proiezione ha preso come riferimenti le età di 18 e 68 anni, due estremi all’interno dei quali stanno i potenziali lavoratori di oggi e di domani.
Il risultato è questo: nel 2021 c’erano 28,7 ultra 68enni ogni 100 persone attive, nel 2039 saliranno a 43,1 e nel 2049 ci saranno 53,1 anziani ogni 100 potenziali lavoratori, cioè più di un pensionato ogni due persone attive. Un quadro meno grave rispetto a quello tracciato dall’Ocse. Ma attenzione: come vedremo più avanti, solo una parte di questa fascia di popolazione tra i 18 e i 68 anni è, e sarà, davvero occupata.
Alla fine, tutti questi numeri ci dicono che il sistema pensionistico è destinato a saltare? Intanto vanno considerati un paio di elementi. Il meccanismo dell’Inps si autoprotegge dall’invecchiamento della popolazione agganciando l’età della pensione all’aspettativa di vita. Quindi la parte della vita attiva degli italiani si allungherà ed è molto probabile che in futuro si potrà smettere di lavorare solo dopo i 70 anni. Come scrive l’Ocse nel suo rapporto, «la generazione che accede adesso al mercato del lavoro in Italia andrà in pensione in media a 71 anni di età, mentre ora è possibile ritirarsi dalla vita attiva in media a 61,8 grazie alle “diverse opzioni disponibili” per andare in pensione in anticipo».
L’altro elemento da considerare è che la grande fascia della popolazione nata a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta, i baby boomer, che ora sta andando in pensione, a un certo punto inizierà naturalmente a ridursi. Secondo le previsioni del governo, la spesa per pensioni dovrebbe rimanere sopra il 16% del Pil almeno fino alla fine degli anni Quaranta. L’anno di picco è previsto nel 2048, solo successivamente il rapporto spesa-Pil dovrebbe calare proprio per la progressiva scomparsa della generazione del baby boom. Questo non vuol dire che possiamo stare tranquilli, il sistema è comunque troppo squilibrato.
Lo ribadisce lo stesso presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, nella relazione che introduce il rapporto annuale dell’istituto di previdenza: «La società italiana sta perdendo il contributo dei giovani, identificabili come la fascia entro i 29 anni: erano il 51,6 per cento della popolazione nel 1951, sono oggi circa il 28%» scrive il presidente. Che aggiunge: «Il calo delle nascite e i conseguenti effetti negativi sul mercato della lavoro e sulla crescita meritano dunque un’attenzione politica più aggressiva su tre fronti: prima di tutto il sostegno alla natalità; in secondo luogo l’ampliamento della base contributiva soprattutto al sud, con l’emersione del lavoro irregolare e la regolarizzazione degli stranieri, da una parte, e la spinta verso più alti tassi di partecipazione, soprattutto da parte delle donne; e in terzo luogo l’incremento della produttività del lavoro. Un contributo può venire anche dalla ripresa delle assunzioni nel pubblico impiego».
Tridico tocca un punto fondamentale: bisogna che più italiani abbiano un’occupazione stabile. In Italia oggi solo il 58% delle persone tra 15 e 64 anni ha un lavoro retribuito, e appena il 49% delle donne. Nella vicina Francia, dove non a caso la natalità è molto alta, sono impiegati il 65% circa dei cittadini in età attiva e il 62% delle donne. Anche in Giappone, che ha una situazione simile a quella italiana per l’invecchiamento, il 75% della popolazione (e il 67 per cento delle donne) ha un’occupazione retribuita.
È un tema su cui insiste Alberto Brambilla, presidente del Centro studi e ricerche Itinerari previdenziali: «È mai possibile che in Italia ci siano circa 37 milioni di persone in età da lavoro, ma quelli che sono occupati veramente siano 23 milioni mentre in Francia, con una popolazione simile, i lavoratori siano 34 milioni? Bisogna smetterla con i soldi a pioggia della spesa assistenziale e gli ammortizzatori sociali, e aumentare gli investimenti nelle politiche attive dell’impiego». In altre parole, aiutare davvero i giovani e i disoccupati a trovare lavoro. E ad avere quella serenità e quei sostegni, come i nidi o il part-time volontario, fondamentali per tornare a riempire le culle.
