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Non basta salvare i posti di lavoro. Bisogna crearne di nuovi

Non basta salvare i posti di lavoro. Bisogna crearne di nuovi

Rubrica: Portugal street

I dati Istat sul mercato del lavoro indicano una significativa caduta dell’occupazione dovuta alla pandemia. Ciò che occorre al Paese è un grande sforzo su competenze, educazione, scuola e una rete di servizi al lavoro fondata sulle esigenze delle imprese


Se confrontiamo il numero di occupati a distanza di un anno vi è una perdita di 556mila unità, a partire da febbraio la perdita è di 472mila unità. Risultano perdite omogenee in tutte le classi di età, tranne per gli over 50, sia per un effetto statistico sia per un qualche effetto delle misure pensionistiche assunte dal governo precedente. Il tasso di disoccupazione ha conosciuto un progressivo aumento e ora si colloca al 9,7 per cento, con un forte incremento per la componente giovanile che registra un tasso di disoccupazione pari al 31 per cento. La distanza dai valori medi europei rimane immutata, anzi si allarga leggermente a dimostrazione del fatto che si è trattato di una crisi di sistema, la più grave probabilmente dal 1929.

Altrettanto grave, per la nostra economia è la caduta del lavoro autonomo -239mila in un anno che evidenzia come la crisi abbia toccato con maggiore forza quel tessuto di microimprese e di lavoro indipendente meno protetto e che da sempre costituisce una parte importante dell’economia italiana. Tuttavia, nei dati diffusi ieri dall’Istat non è mancata qualche sorpresa: la ripresa dell’occupazione, circa 85mila posti di lavoro in più rispetto a giugno, trainati dall’incremento del lavoro femminile e dall’aumento dei contratti a tempo indeterminato. Entrambi sono fenomeni che dovranno essere analizzati e compresi perché se è vero che già nel 2008 vi fu un fenomeno simile dovuto alla necessità di integrare il reddito familiare questa lettura oggi può non essere totalmente convincente. Diversa la situazione dei contratti a tempo indeterminato dopo tutti gli interventi degli ultimi anni su questa tipologia contrattuale e la penalizzazione dei contratti a termine, che normalmente nelle situazioni di crisi sono un elemento di flessibilità. Vi è poi una leggera ripresa di ore lavorate a testimonianza che l’attività produttiva sta riprendendo e che l’utilizzo di Cig è meno consistente. Occorre comunque sottolineare che l’aggiustamento di luglio è pari allo 0,4 per cento, che ci troviamo in un mese dove alcune attività trovano maggiore espansione, che blocco di licenziamenti ed utilizzo della Cig in maniera estesa arrestano i processi di riorganizzazione e ristrutturazione aziendale e che il tasso di occupazione in Italia è superiore solo a quello della Grecia. Le preoccupazioni rimangono, pertanto, immutate e resta la necessità di un cambio di velocità e di orientamento nelle politiche del lavoro che dovranno essere adottate nei prossimi mesi per non creare un esercito di disoccupati ed inattivi, rendere strutturali le difficoltà dei giovani ad entrare nel mercato del lavoro, impedire le transizioni strutturali che necessariamente interesseranno le nostre imprese.

Come correttamente ha osservato Draghi non è più sufficiente salvare i posti di lavoro ma è necessario ora crearne di nuovi. La strategia non può essere più solo cassa integrazione e blocco dei licenziamenti, né appare adeguata alla sfida dei tempi l’idea di una riduzione della settimana lavorativa a parità di salario (seppure il livello di parità sia garantito dallo Stato e non gravi sulle imprese). Ciò che occorre al Paese è un grande sforzo sulle nuove competenze, sull’educazione, sulla scuola, sul collegamento tra formazione e imprese; la creazione di una efficace rete dei servizi al lavoro (e qui va rivisto ruolo e obiettivi di Anpal, che non può essere solo ridotta al coordinamento dei navigator) fondata sulle esigenze delle imprese; l’istituzione in forma permanente di uno strumento per la ricollocazione dei disoccupati nelle crisi occupazionali e nelle transizioni; la rivisitazione e semplificazione della cassa integrazione, che deve però restare immutata nei suoi fondamenti in virtù dei risultati raggiunti in questa crisi; la congiunzione tra politiche industriali e politiche del lavoro, che ancora appare insufficiente nel Paese. Il prossimo Recovery Plan che l’Europa richiede, ancora prima di uno sforzo all’utilizzo di risorse finanziarie deve essere una operazione che modernizzi il Paese e permetta quelle riforme strutturali da tempo attese: prima di tutte l’incremento di produttività fondato su una diversa combinazione tra capitale e lavoro direbbero quelli orfani delle dottrine del secolo scorso.

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