- Europa: L’allarme sulla tenuta dello stato sociale viene dalla Svezia. Ma interessa altri Paesi Ue come Germania, Gran Bretagna, Svizzera e Francia. Dove, come accade anche in Italia, la spesa per l’accoglienza corre.
- Germania 1: La nuova legge tedesca sull’immigrazione faciliterà gli arrivi extra-Ue, ma i lavoratori del Sud Europa (e in particolare gli italiani) restano i preferiti. Richiestissimi medici, infermieri, ingegneri e ristoratori. Ma anche economisti, architetti e designer.
- Germania 2: Dopo le dimissioni della sua «delfina» Annegret Kramp-Karrenbauer, Angela Merkel traballa. Ma nella Grande coalizione nessuno vuole elezioni anticipate, con l’economia in affanno e i fronti aperti in politica estera.

E se l’arrivo dei migranti finisse perché costa troppo mantenerli? L’ipotesi è tutt’altro che remota, osservando i dati sul «welfare state» dei più virtuosi Paesi Ue, che oggi lamentano un impoverimento progressivo delle casse statali per fare fronte all’assistenzialismo e agli assegni di disoccupazione dei richiedenti asilo. A soffrire di più sono i piccoli comuni europei, che per legge devono assisterli ma ormai spendono più di quanto incassano. L’allarme viene dalla Svezia, ma riguarda anche Germania, Regno Unito e Francia.
Nell’ottobre scorso uno studio curato dall’Associazione dei comuni e delle regioni svedesi (Skr) ha previsto il collasso del sistema di stato sociale già nel 2023, pur avendo la Svezia il secondo migliore tasso di disoccupazione di tutta l’Ue (5,9%) e il primo per occupazione (82% della manodopera). A quella data, denunciano i sindaci svedesi, il deficit di comuni e regioni avrà toccato i 43 miliardi di corone (poco più di 4 miliardi di euro), proprio a causa dell’aumento delle richieste di disoccupazione degli stranieri.
Infatti, al marzo scorso il 58% degli iscritti alle liste dei senza lavoro risultava composto da stranieri (che sono il 23% della popolazione). Nello stesso periodo, il tasso di disoccupazione dei nati all’estero era del 15,4% contro quello degli autoctoni, fermo al 3,8. I disoccupati, insomma, sono in larga parte extracomunitari che, non trovando o non cercando lavoro, ricadono per la loro assistenza sulle municipalità.
Non ne fa mistero il socialdemocratico Göran Bergström, consigliere comunale di Strömsund, piccolo centro nel nord della Svezia. Per far fronte alle spese legate a un’ondata migratoria anomala, ha richiesto un credito aggiuntivo di 3,8 milioni di euro al governo per evitare la bancarotta: «Tutti i costi sono a carico delle municipalità. Nel nostro comune, la disoccupazione non è mai stata così bassa tra i residenti autoctoni. Però, siamo comunque in ginocchio e la ragione è che non abbiamo mai registrato un così alto tasso di disoccupazione tra i nati all’estero. E questi ultimi dipendono quasi automaticamente nel welfare, che per la maggior parte di loro è di fatto un sostegno a vita».
La tendenza è nazionale: ne sia riprova Malmö dove, secondo l’Ufficio di statistica, gli abitanti di origine straniera sono aumentati dal 31,9% del 2002 al 45,9 del 2018, pari quasi a 150.000 persone. Stessa dinamica in Germania dove, scorrendo i dati ufficiali, si nota come gli stranieri rappresentino una parte sempre più consistente di chi beneficia di prestazioni sociali. Se nel 2011 era straniero solo il 19% di chi riceveva un assegno di solidarietà, nel 2016 si era saliti a una percentuale del 27. E oggi il trend è in continua crescita. Anche qui, gran parte dell’onere finanziario è a carico dei comuni, come rimarcato dall’Associazione tedesca di città e comuni, che ha lanciato l’allarme sottolineando come la spesa per le prestazioni sociali aumenti mediamente del 9% ogni anno, sfondando il tetto dei 10 miliardi di euro a biennio.
La situazione non è rosea neanche in Francia dove, per ammissione dello stesso presidente Emmanuel Macron, i dati rilasciati dal ministero della Solidarietà e della Salute del 2019 non sono buoni. Parigi condivide insieme ad altri tre Paesi europei (Finlandia, Belgio, Danimarca) la classifica che vede la spesa sociale pesare per oltre il 30% del proprio Pil, contro la media Ocse del 22. Tradotto, per i francesi la spesa per la protezione sociale supera i 750 miliardi di euro l’anno. Di questa cifra, per l’Ocse l’immigrazione incide per lo 0,5% della ricchezza nazionale, circa 10 miliardi di euro annui.
Nel Regno Unito, invece, con la Brexit il governo è chiamato a indicare nuovi parametri per l’assistenza ai migranti. Intanto, però, si è già accesa la polemica sui possibili abusi nello sfruttamento delle risorse statali a questo fine. «Nonostante la poligamia sia vietata nel Regno Unito» spiega Chiara Franzin, ricercatrice universitaria «la riforma del British welfare act permette a ciascuna delle mogli di un cittadino musulmano di ricevere assegni di mantenimento familiari e disporre di immobili che, vista la consistenza dei nuclei familiari, spesso si rivelano essere di prestigio. Considerando che in Inghilterra sono almeno 20.000 le unioni bigame o poligame e che tali nuclei familiari contano circa 15 persone, si parla di almeno 300.000 persone coinvolte». Un fatto che la giurisprudenza italiana ha escluso a priori. E così in teoria Londra, dove la poligamia resta illegale. Ma la prassi, si sa, è altra cosa.
Fuori dalla Ue, va citato il caso svizzero. Qui la spesa per l’assistenza sociale per ogni straniero vale in media 1.200 franchi svizzeri (1.094 euro) al mese, il 20% in meno rispetto ai beneficiari elvetici. La spesa viene suddivisa sui vari livelli istituzionali: Confederazione, cantone, comuni, e su diverse voci di uscita dove, alle prestazioni in denaro, vanno aggiunti i costi di particolari aiuti sociali ai più deboli. Lo conferma il consigliere nazionale della Lega dei ticinesi, Lorenzo Quadri, che aggiunge: «Tale frammentazione rende impossibile una visione globale. Si tratta comunque di un costo stimato in circa 7 miliardi di franchi, quasi 6,5 miliardi euro».
Stesso discorso vale per gli abusi. Essendo la Svizzera uno Stato federalista, l’erogazione degli aiuti sociali non è regolata in modo uniforme. «Nella Svizzera tedesca sono i comuni a erogare gli aiuti, mentre in Ticino la spesa è suddivisa tra il cantone, 75%, e i comuni, 25. Chiaramente, il rischio che gli aiuti ai migranti economici vadano a erodere le possibilità di intervento a sostegno della popolazione locale è concreto».
E l’Italia? Secondo i dati della Corte dei conti, per l’accoglienza ai migranti lo Stato ha accumulato debiti fuori bilancio per almeno mezzo miliardo nel solo 2017, con una spesa che dal 2014 è quadruplicata, passando da 640 milioni a 2,4 miliardi. E questo solo per la prima accoglienza. Mentre i dati consolidati dicono che la spesa globale per rifugiati e richiedenti asilo in Italia è cresciuta del 37% nel solo 2018 a 4,4 miliardi di euro. Va precisato, però, che 781 milioni sono stati destinati a missioni di ricerca e soccorso, e altri 590 a garanzia dell’accesso all’istruzione per minori e alle strutture sanitarie. Pesano, inoltre, i circa 9.200 centri di ospitalità dislocati nel 40 per cento dei comuni.
E pensare che una seria regolamentazione degli stranieri potrebbe incidere positivamente sul nostro Pil: secondo l’Inps, gli immigrati già stabilizzati e inseriti nel circuito del lavoro versano ogni anno circa 8 miliardi di euro di contributi, ricevendo in cambio 3 miliardi tra pensioni e altre prestazioni sociali. Il saldo, dunque, è in positivo per 5 miliardi. A questo, però, ancora non si riesce ad affiancare un quadro normativo che armonizzi il controllo degli ingressi, stoncando traffici e abusi. In tutto ciò, l’Unione europea come interviene? Nel 2016 Bruxelles ha concesso all’Italia appena 46,8 milioni di euro, pari soltanto al 2,7% delle spese. I numeri parlano da soli.
Germania 1 / Berlino cerca manodopera specializzata: graditissimi gli italiani
«Dovremmo concentrarci di più sull’Europa quando reclutiamo lavoratori qualificati» ha affermato a inizio febbraio il tedesco Hans-Eckhard Sommer, presidente del Bamf, l’Agenzia federale per i migranti e i profughi. Già, perché se l’automotive della Germania è entrato in crisi nera, altri settori offrono ancora lavoro. Sommer ha messo l’accento sul titolo di studio. «In Europa meridionale ci sono molti giovani ben istruiti, ma disoccupati. Dobbiamo attirarli in Germania».Quali sono dunque le professioni che restano «scoperte» nella Repubblica federale? Panorama lo ha chiesto a Panu Poutvaara, professore di economia all’Università di Monaco di Baviera e direttore del Centro per la ricerca sulle migrazioni dell’Istituto Ifo. «Sono d’accordo con Sommer: è più facile integrare i lavoratori in arrivo da altri Paesi europei». Il suo pensiero va subito alla nuova legge sull’immigrazione che entrerà in vigore il 1° marzo in Germania e faciliterà l’arrivo da Paesi extra Ue di lavoratori privi di un titolo accademico, ma dotati di competenze professionali dimostrabili. «La legge è uno strumento in più: si aggiunge alla libera circolazione dei lavoratori nel mercato Ue e la integra, ma non la sostituisce».
È il caso, per esempio, degli sviluppatori di software: molti di loro arrivano dall’India. La legge stabilisce che un lavoratore specializzato che trovi un’offerta di lavoro in Germania possa immigrare e chiedere un permesso di soggiorno. Anche un praticantato può bastare, ma in quel caso il carpentiere straniero tirocinante non avrà diritto ai benefici del welfare durante la formazione. «Si tratta di un grande passo avanti rispetto alla situazione precedente in cui il datore di lavoro poteva rivolgersi all’estero solo dopo aver dimostrato che non c’erano cittadini tedeschi o europei disponibili per quell’incarico» osserva Poutvaara.
Gli italiani non hanno bisogno delle nuove regole per cercare un’occupazione in Germania. Ma se nel Paese il lavoro non manca, Poutvaara non azzarda una stima dei lavoratori di cui ci sarà bisogno in futuro. «Io posso certificare che il numero dei nuovi pensionati è maggiore di quello dei nuovi lavoratori: di conseguenza un numero crescente di posti di lavoro resterà vacante». Certo è che l’invecchiamento demografico renderà sempre più preziosi medici, infermieri, badanti, operatori sanitari in genere. Lo scenario, insomma, è cambiato. «Per gli italiani non ci sarebbero più né le miniere di carbone né le fabbriche di automobili: oggi servono lavoratori con studi universitari e persone disposte a lavorare nella ristorazione, un settore peraltro sempre più esposto all’immigrazione dai Paesi centroeuropei».
L’economista osserva come «molti italiani laureati che non trovano un’occupazione in Italia corrispondente agli studi intrapresi potrebbero trovarla in Germania». Fra i laureati più ambiti, Poutvaara menziona medici, infermieri, e ingegneri; e ancora i laureati in economia, gli architetti, i designer. «E ci sono moltissimi italiani che lavorano con successo in Germania in ambito accademico» aggiunge. Molti degli ambiti professionali menzionati sono gli stessi in cui è più facile trovare lavoro anche in Italia, ammette il professore, «ma è possibile che le condizioni, non solo retributive, siano migliori in Germania».
Lavorare a Dortmund o a Colonia non significa emigrare per sempre. «Chi viene oggi in Germania da una nazione europea» riprende Poutvaara, «può restare qualche anno per poi tornare a casa o magari spostarsi in un Paese terzo». Così non è per chi arriva dall’Iraq, dall’Afghanistan, dall’Asia o da uno Stato africano: «La differenza negli standard di vita è così grande che chi viene da questi Paesi rimane nel luogo in cui è emigrato, se ne ha la possibilità».
In passato l’Italia ha conosciuto grandi fenomeni di emigrazione di massa: ma oggi che è una delle nazioni meno prolifiche al mondo. Una fuga di cervelli è sostenibile? Possiamo lasciare che scienziati, ingegneri, accademici prendano la via della più sviluppata Germania? «Per il vostro Paese è meglio che i suoi giovani lavorino all’estero piuttosto che restino a casa inoccupati» osserva Poutvaara. «Sarebbe utile che l’Italia rilanciasse il proprio mercato del lavoro: c’è un grande potenziale umano e a quel punto il Paese tornerebbe attrattivo».
Daniel Mosseri
Germania 2 / Grazie al clima di incertezza, Angela Merkel resiste al governo
È malferma ma non ancora sconfitta. Con il passo indietro di Annegret Kramp-Karrenbauer (Akk), sue erede politica designata, Angela Merkel ha collezionato l’ennesima ammaccatura nella carrozzeria della grande coalizione. Eppure, anziché cadere, la cancelliera tedesca potrebbe restare al potere fino alla fine della legislatura nell’autunno 2021, in virtù della debolezza del suo partito (Cdu) e degli alleati socialdemocratici (Spd). Tenere Merkel al governo può poi fare comodo ai suoi rivali politici. Akk si è dimessa da presidente della Cdu dopo la figuraccia rimediata in Turingia, dove i parlamentari regionali del suo partito hanno eletto un governatore assieme ai sovranisti di Alternative für Deutschland (AfD).
Con la delfina di Merkel bruciata a sorpresa, da un paio di settimane la leadership della Cdu è rivendicata da Friedrich Merz, esponente della destra interna e nemesi della cancelliera. Altri papabili leader del partito sono il governatore del Nord Reno-Vestfalia, il centrista Armin Laschet, e il giovane ministro della Salute Jens Spahn, conservatore moderno, già severo critico dell’accoglienza ai profughi siriani voluta nel 2015 da Merkel. La Cdu non intende aspettare il congresso ordinario a Natale e scalpita per eleggere un nuovo leader entro l’estate.
Viene dunque da chiedersi se l’eventuale elezione di Merz, Laschet o Spahn decreterà la fine del quarto governo Merkel. «Non credo» risponde a Panorama il politologo berlinese Nils Diederich. «Nella tradizione cristiano-democratica il leader del partito è anche il candidato cancelliere, ma nessuno ha fretta di andare a nuove elezioni». Non i socialdemocratici, che non accetterebbero un cambio di cancelliere in corsa: la Spd ha firmato il patto di coalizione con Merkel, per cui se il nuovo leader Cdu reclamasse la guida del governo, i socialdemocratici lascerebbero la maggioranza portando il Paese a elezioni anticipate.
Elezioni che la Germania non può permettersi durante il proprio turno di presidenza Ue: 1° luglio – 31 dicembre 2020. Neanche la Cdu ha fretta di tornare al voto: «Il partito è debole e Merz cercherà prima di recuperare i milioni di elettori franati verso AfD». Il processo è sotto gli occhi di tutti. Anche il mite Laschet, considerato il candidato più vicino alla cancelliera, «ha già cominciato a criticare la politica europea del governo», osserva il professore. Chiunque vincerà, in altre parole, dovrà prima consolidare la presa sul partito per riposizionarlo più a destra, lasciando a Merkel l’incombenza del governo. A una cancelliera più isolata resterebbe l’onere di guidare il Paese in una fase delicata non solo per il partito.
La crisi conclamata dell’automotive, pilastro dell’industria tedesca, non è l’unico guaio della Germania. Secondo il Kiel Institute for the world economy (Ifw), osservatorio tedesco dell’economia globale, il nuovo accordo commerciale «Phase One» fra Usa e Cina è destinato a far rallentare ulteriormente la Germania, il cui Pil è già rimasto fermo nel quarto trimestre 2019. La Cina, secondo il presidente dell’Ifw Gabriel Felbermayr, «si è impegnata unilateralmente a importare merci americane per un valore di circa 200 miliardi di dollari, rinunciando a prodotti provenienti da altri Paesi». Tra di essi c’è ovviamente la Repubblica federale, «che sta perdendo quote di mercato in Cina in misura considerevole».
Ad aggravare il quadro giunge una stima dell’istituto Ifo di Monaco secondo cui il rallentamento di un punto percentuale dell’economia cinese a causa del coronavirus potrebbe costare alla Germania una contrazione del pil di 0,06 punti. Dati elaborati immaginando che il virus abbia uno sviluppo simile a quello della Sars nel 2003. «Ma esistono indicazioni che quest’epidemia sia più seria, il che avrebbe effetti più severi sull’economia tedesca» aggiunge l’Ifo.
È evidente che in un quadro d’incertezza, nessuno dei possibili nuovi leader della Cdu abbia fretta di sostituirsi alla cancelliera alla guida del governo. Un governo più isolato nel mondo: Donald Trump in rotta di collisione con Merkel su economia, Nato e questione climatica, Vladimir Putin che ignora gli sforzi tedeschi per la crisi in Ucraina, Recep Tayyip Erdogan che minaccia a giorni alterni di inondare l’Europa di profughi. Orfana dell’amica Gran Bretagna, Merkel è più sola anche in Europa, quindi più esposta ai francesi. Sarà inoltre priva di un forte sostegno del proprio partito, che anzi la userà per il tiro al piccione. La cancelliera si sta usurando. «Contro di lei Merz ha già perso due volte (nel 2002 e nel 2018, ndr)» conclude Diederich. Prima di darle la zampata finale, il suo avversario questa volta giocherà le proprie carte con molta attenzione.
Daniel Mosseri
