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Sud America, il miracolo della moltiplicazione dei poveri

Sud America, il miracolo della     moltiplicazione dei poveri

Dal Brasile al Venezuela, dal Cile alla Colombia all’Argentina: in questi Paesi i presidenti a vocazione socialista privilegiano interventi di sussidio alla popolazione che ricordano il reddito di cittadinanza dei nostrani pentastellati. Ma i risultati sono il contrario di quelli attesi.


Con le cinque maggiori economie latinoamericane ormai gestite dalla sinistra di ispirazione «bolivariana» – Brasile, Messico, Argentina, Colombia e Cile – già si assiste a un particolare fenomeno. Da un lato questi governi, per incapacità o ideologia, mettono in pericolo le economie. Dall’altro fanno a gara a chi offre più sussidi, in una visione del mondo in cui alla dignità del lavoro è preferibile il reddito di cittadinanza, con l’attivazione di politiche che sarebbero la gioia per i pentastellati di casa nostra. Certo, i grossi problemi sono già sotto gli occhi di tutti, per rendersene conto basta guardare i numeri.

Il Cile, per esempio, è la sola realtà dell’America latina che, con l’idolo dei progressisti globali Gabriel Boric, vedrà il proprio Pil arretrare nel 2023 secondo le previsioni del Fondo monetario internazionale (Fmi). Inoltre la violenza record, soprattutto in Patagonia a causa di quattro gruppi terroristici Mapuche, la crescente insicurezza nelle aree urbane e un’impennata dell’inflazione su base annua del 12,8 per cento – in un Paese che ha vissuto gli ultimi due decenni con un tasso di inflazione annuo del 3 per cento – si sono tradotti in un nuovo calo del già basso indice di gradimento del presidente eletto nel marzo scorso, crollato adesso sotto il 25 per cento.

Non va meglio in Brasile dopo che, a metà novembre, il presidente eletto Luiz Inácio Lula da Silva in una sola giornata ha fatto perdere con le sue dichiarazioni oltre 250 miliardi di reais (circa 50 miliardi di euro) all’Ibovespa, la borsa brasiliana, affossando la valuta nazionale del 5,45 per cento in pochi giorni: la maggiore svalutazione settimanale degli ultimi due anni e mezzo. In un discorso a metà tra il comizio e il delirio di onnipotenza l’ex presidente dei poveri ha chiarito che sarà radicale come la sua delfina Dilma Rousseff con politiche espansive fiscali e monetarie senza limiti per i prossimi quattro anni, imponendo nei dicasteri economici politici senza alcuna competenza tecnica. «Perché le persone sono costrette a soffrire a causa della stabilità fiscale in questo Paese? Perché la gente dice sempre che bisogna ridurre i deficit?». Una sfilza di sussidi per tutti, mentre sproloquiava che l’inflazione farà bene all’occupazione e il mercato è il demonio.

Lula vuole mantenere le sue, in realtà impossibili, promesse della campagna elettorale, ovvero non fare pagare più tasse a chi guadagna meno di 5 mila reais, circa mille euro al mese, e distribuire aiuti a pioggia fuori bilancio per i prossimi quattro anni. A partire dal reddito di cittadinanza del gigante sudamericano, che tornerà a chiamarsi «Borsa Brasile», cui si sommeranno sussidi di 150 reais, pari a circa 30 euro, per ogni figlio. Il problema è che, come conferma a Panorama un ex dirigente di Banca d’Italia che conosce molto bene il Brasile e per questo, dalle parti di San Paolo è soprannominato «il Guru», «le maggiori economie mondiali saranno in recessione nel 2023. L’Fmi prevede un arretramento per il blocco Ue e anche la Cina rallenterà».

L’esperto, che preferisce l’anonimato, si dice certo che «Il Brasile non potrà contare su una spinta dall’estero per crescere nel 2023 e la recessione nelle maggiori economie ridurrà gli acquisti di prodotti brasiliani e scoraggerà gli investimenti nei mercati emergenti. Con questa bassa prospettiva di crescita e la mancanza di un controllo nella politica fiscale – e nella politica economica in generale – oggi questo Stato sudamericano non è attrattivo». Mentre la borsa brasiliana affondava Henrique Meirelles, ex presidente della Banca centrale durante i precedenti governi Lula, ha dichiarato in un evento promosso dall’impresa finanziaria Btg Pactual di essere pessimista sul futuro governo di Lula.

Ai clienti della banca ha detto che il presidente eletto non ha affrontato il tema economico in campagna elettorale per non provocare allarmi ma «da quando ha iniziato a parlare appare chiara la sua “dilmizzazione”», riferendosi alla fallimentare politica dell’ex presidente Dilma Rousseff. L’ex presidente della Banca centrale, che era stato addirittura paventato dai media brasiliani pro Lula come futuro ministro delle Finanze nel nuovo governo, ha criticato le dichiarazioni «folli» fatte dal neopresidente a favore di «una spesa senza limiti». «Sono pessimista, non ho dubbi» riflette Meirelles, concludendo laconico con «posso dire solo una cosa a tutti voi: buona fortuna». Ce ne vorrà tanta visto che le previsioni di crescita del Pil del Paese del samba nel 2023 sono di appena lo 0,7 per cento secondo il rapporto Focus della Banca centrale; mentre la povertà estrema è tornata a crescere, secondo i dati della Banca mondiale, dopo il minimo storico dell’1,9 per cento toccato nel 2020 grazie all’aiuto di emergenza distribuito dal presidente uscente Jair Bolsonaro durante la pandemia. Oggi coloro che in Brasile guadagnano meno di 60 euro al mese sono il 5 per cento della popolazione, ovvero quasi 11 milioni di persone. Per l’autorevole economista Luís Artur Nogueira, il discorso di Lula ha «fini nobili ma che non giustificano cattivi mezzi per raggiungerli. Per quanto Lula voglia farla finita con la fame, non sarà distruggendo i conti pubblici che raggiungerà il suo obiettivo. Se fai fallire il Brasile dal punto di vista fiscale, genererai inflazione e la Banca centrale aumenterà i tassi di interesse». Tassi di interesse più alti generano recessione economica, disoccupazione e, quindi, «aumenteranno la fame in Brasile» ha spiegato l’economista e «sarà il risultato opposto a quello che intende centrare il presidente».

In realtà Lula, Boric insieme con i presidenti di sinistra di Argentina, Messico e Colombia si stanno incamminando su un «nuova via al capitalismo» come quella propugnata anche da papa Francesco. Non a caso, l’ex guerrigliero e ora presidente colombiano Gustavo Petro, oltre ad ascoltare molto attentamente i consigli di Tony Negri, ha preso come consulente per la sua riforma fiscale, implementata a metà novembre, Mariana Mazzucato: economista italoamericana vicina all’ideale di nuova economia di Francesco e autrice di libri come Missione economia. Una guida per cambiare il capitalismo (2021).

Il problema è che nei pochi mesi di Petro al potere il peso colombiano ha già perso il 30 per cento del suo valore contro dollaro ed euro, l’inflazione è ai massimi dagli anni Novanta e sono state aumentate le tasse su carburanti, carne di hamburger, cioccolato, cereali, salse, pasticcini e bevande. Cresciuta anche la tassa sui dividendi d’impresa al 20 per cento e quella sugli impianti idroelettrici, che pagano oggi il 40 per cento sugli utili. Sono state invece rimosse tutte le imposte sulle chiese mentre è salita al 10,8 per cento, sempre secondo gli ultimi dati della Banca mondiale, la popolazione colombiana che vive in miseria, pari a sei milioni di persone.

Al di là delle ricette, il problema vero è che mai la sinistra è stata capace di gestire bene l’economia, soprattutto per i poveri in America latina. Basti pensare ad Argentina e Venezuela, che dopo decenni di governi progressisti sono riusciti nella poco invidiabile impresa di moltiplicare i poveri; questi sono rispettivamente il 50 e il 96 per cento della popolazione totale, con un’inflazione record del 100 e del 250 per cento l’anno. Ancora peggio fa Cuba, dove dopo 63 anni di comunismo la popolazione è letteralmente alla fame, come dimostra l’esodo degli ultimi 12 mesi, con la fuga verso gli Stati Uniti del 4 per cento dell’intera forza lavoro.

Insomma, se l’obiettivo è quello di moltiplicare gli indigenti, allora il risultato per l’America latina sembra garantito ma, a parole Lula, Petro e Boric, si vantano populisticamente di volere «aiutare per la prima volta i poveri» mentre papa Francesco ha proposto più volte il riconoscimento di un «reddito universale» a livello globale. Una proposta già accolta dall’ala più radicale dal peronismo di sinistra che oggi governa in Argentina rappresentata da Juan Grabois, non a caso consigliere ad honorem dell’ex Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace del Vaticano. Solo un miracolo a questo punto potrà salvare i poveri dell’America Latina dall’indigenza ma soprattutto dall’avidità dei governanti che usano la scusa della miseria per arricchire le proprie élite. E perpetuare quelle condizioni di controllo sociale attraverso i sussidi.

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