Una storia prestigiosa e un presente nerissimo per il Gruppo Maccaferri di Bologna, a causa di acquisizioni facili, investimenti sbagliati e un bond emesso «a tasso lunare». Così attività industriali con ottime prospettive – ingegneria meccanica, energie rinnovabili, un marchio rinomato nel tabacco – rischiano di evaporare tristemente.
La vera classe è far festa come nulla fosse, anche quando i creditori bussano alle porte. Primo ottobre 2018, Parco delle Cascine: per festeggiare i 200 anni di storia del Sigaro Toscano della famiglia Maccaferri, una città elegante e aristocratica come Firenze per una notte si popola di carne da Cafonal di Dagospia.
Da Roma, nel primo vero grande party dopo l’estate luttuosa del Ponte Morandi, sale la crème de la crème della capitale, capitanata da Maria Elena Boschi, Pier Ferdinando Casini, Antonio Patuelli, Giancarlo Leone, famiglia Letta al completo, Azzurra Caltagirone, Giancarlo Abete, clan Bernabei-Minoli-Nastasi, Davide Oldani, Lella Costa, Giovanna Melandri, Roberto Napoletano, Giovanni Legnini, Innocenzo Cipolletta, Cristina Nonino che versa la sua grappa e un tocco di Pleistocene come Lamberto Dini, con immutata signora Donatella. Presenti giustificati, Luca Cordero di Montezemolo e Aurelio Regina, che delle pregiate Manifatture sono soci di minoranza e infaticabili lobbisti.
Secondo il Tribunale di Bologna, che il 24 luglio ha sequestrato beni per 57 milioni alla famiglia Maccaferri con l’accusa di bancarotta fraudolenta per distrazione, in quel periodo si stava tenendo sotto i tappeti l’insolvenza della capogruppo Seci spa, ormai sfiancata da 750 milioni di debiti bancari e da bond per circa 200 milioni di euro. E una serie di immobili di pregio venivano trasferiti in una nuova società, per metterli al riparo dalla tempesta in arrivo e da prestatori voraci.
Ma la storia dei Maccaferri non è come altri crac degli ultimi anni, ovvero (im)prenditori che sbucano dal nulla, acchiappano soldi di Invitalia o dello Stato con la promessa di salvare i posti di lavoro, fingono di salvare aziende con un buon marchio o stabilimenti ancora interessanti, e poi spariscono con la cassa. Hanno 140 anni di storia imprenditoriale e la loro holding, Seci, dal 1949 si muove ad ampio raggio: Officine Maccaferri si occupa di ingegneria ambientale ed è famosa per i gabbioni di ferro; Manifatture Sigaro Toscano è un gioiello del tabacco come la Sadam per lo zucchero; la Samp è un colosso dell’ingegneria meccanica; Seci Real Estate costruisce e Seci Energia fa impianti per le energie rinnovabili. Il gruppo bolognese fatturava poco più di un miliardo nel 2018, ha 4.500 dipendenti e lavora in tutto il mondo.
Gaetano Maccaferri, laurea in architettura, 69 anni, il più carismatico dei quattro fratelli, è stato presidente di Confindustria in Emilia-Romagna e vicepresidente di Confindustria nazionale dal 2012 al 2016, quando è diventato membro del consiglio superiore della Banca d’Italia. Una poltrona, quella all’ombra dei consiglieri del governatore Ignazio Visco, che rischia di essere di un qualche imbarazzo se le gravi accuse della Procura bolognese dovessero rivelarsi fondate.
Non si sa quanto capisca di banche Gaetano Maccaferri, ma di sicuro, insieme ai fratelli Antonio, Alessandro e Massimo, ne ha visto il lato meno piacevole. Seci si è gonfiata come una rana tra privatizzazioni e acquisizioni «di sistema», come la Eridania (ex gruppo Ferruzzi), che si fece rifilare da Mediobanca nel 2003 ed è stata poi ceduta nel 2016 ai francesi di Cristal Union, dopo averci perso parecchi milioni. Seci si è anche lanciata nel fotovoltaico e nelle costruzioni in Cina, Bolivia, Perù, Brasile, Messico, Russia, Turchia, Serbia e India. Tutti «mercati» difficili, instabili e con un rischio politico non indifferente.
Ma nell’ottobre 2013, per esempio, ha ottenuto una quarantina di milioni da Cassa depositi e prestiti, Sace e Bnp Paribas per crescere oltre confine. Ed è finita schiacciata da debiti per 750 milioni, contratti in gran parte con Intesa Sanpaolo, Unicredit, Banco Bpm e Bper Banca. Ha provato più volte a quotare qualcosa in Borsa (Seci stessa, Officine Maccaferri, Seci Energia e il Sigaro Toscano), ma alla fine ha sempre desistito.
In compenso, a maggio 2014, mentre Gaetano Maccaferri a Roma è un papavero di Confindustria, si fa convincere dalle banche a emettere un bond da 200 milioni con un tasso lunare (5,75%). L’emissione, curata da Imi-Sanpaolo, Bnp Paribas e Unicredit, in epoca di tassi prossimi allo zero va a ruba, nonostante Moody’s la classifichi «ad alto rischio». Ed è questo bond, in scadenza l’anno prossimo, a impiccare ulteriormente la holding bolognese.
Le amicizie politiche, da Casini alla Boschi passando per il Pd (90.000 euro di finanziamento nel 2013) e per l’ex vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini, non bastano quando ogni sei mesi tocca pagare cedole stellari. Proprio a partire dal 2014, come ricostruisce la Guardia di finanza nell’inchiesta per bancarotta, «il gruppo Maccaferri entra in tensione finanziaria» e mantiene conti apparentemente in equilibrio solo grazie alla dismissione di consistenti asset. Il 31 maggio del 2019 il gruppo deposita al Tribunale di Bologna la richiesta di concordato per quattro società, ma l’apnea non si ferma.
Il 21 maggio del 2020, Officine Maccaferri è la dodicesima società del gruppo a chiedere al tribunale protezione dai creditori. A fine marzo di quest’anno è direttamente la holding Seci ad alzare le mani e a presentare il concordato preventivo, che si regge sul salvataggio organizzato dal fondo Carlyle, guidato in Italia da Marco De Benedetti, e dai suoi soci, tutti obbligazionisti di quel maledetto bond 2014-2021. Un mese e mezzo prima, la Procura aveva chiesto il fallimento di Seci. A leggere le motivazioni della richiesta si possono già intravedere i motivi dei sequestri del 24 luglio: «Dalla situazione patrimoniale rilevabile degli ultimi tre bilanci depositati emerge un vero e proprio stato di insolvenza irreversibile».
In particolare, osserva la Procura, il patrimonio netto della Seci era già negativo (per 65 milioni) al 31 dicembre 2018 e il buco raddoppia nel giro di un anno (120 milioni al 30 settembre scorso). Non solo, ma dei 197 milioni di crediti messi a bilancio, ben 173,4 milioni sono nei confronti di controllate e la Procura, oltre che sospetti, li ritiene ormai inesigibili.
E mentre tutti si augurano che il salvataggio del gruppo orchestrato da De Benedetti junior vada in porto, il sequestro da 57,6 milioni di fine luglio penzola come un blocco di cemento da una gru. La Finanza ha messo i sigilli a tutto il capitale della Sei Spa, costituita a Bologna nel 2017 e alla quale manca solo una «c» rispetto alla Seci Spa, perché, nonostante non sia formalmente collegata in alcun modo alla holding, ne ha casualmente gli stessi soci.
Sul registro degli indagati per la presunta spoliazione immobiliare di Seci ci sono tutti i vertici: Gaetano Maccaferri, presidente del cda; Alessandro Maccaferri, vice presidente; Antonio Maccaferri, consigliere; Piero Tamburini, ex amministratore delegato. L’accusa tocca anche Massimo Maccaferri, Angela Boni, Raffaella Boni, Guglielmo Bozzi Boni, che sono soci della Seci e della Sei. A migrare verso la Sei sono stati in gran parte immobili di pregio e sedi di aziende, oltre ad alcune partecipazioni societarie. Va detto che se è stata fatta con dolo, come ritengono i magistrati, l’operazione è davvero pacchiana.
E visto che le cessioni immobiliari sono state firmate da fior di professionisti, i fratelli si sono immediatamente messi a disposizione per chiarire «l’assoluta correttezza dell’operato proprio e dei propri consulenti». Al di là delle inchieste penali, che non sono certo il metro di tutte le cose, alla vigilia di un autunno così non c’era davvero bisogno di un’altra crisi tanto pesante, con oltre 4.000 lavoratori in gioco e un nome storico dell’imprenditoria italiana che rischia di evaporare sotto il peso di scelte sbagliate da parte dei proprietari, ma anche di un evidente cappio finanziario che si è pian piano stretto intorno al loro collo.
Se il piano di risanamento andrà in porto, ai Maccaferri resteranno solo il 4% di Officine, che passeranno sotto il controllo di Carlyle e della sua cordata, e il 10% di Samp (Munizich e ancora Carlyle), con altri fondi che stanno alla finestra come gli americani Oxy Capital e Fortress. E le Manifatture Sigaro Toscano? Resteranno in famiglia e con i loro 20 milioni di utile l’anno serviranno a pagare le rate dei debiti. Mentre l’infaticabile popolo dei festaioli romani passerà ad altri buffet.