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Il lavoro nero dietro il business delle consegne

Il lavoro nero dietro il business delle consegne

È un settore dei trasporti che ha avuto uno sviluppo tumultuoso. Ma le recenti inchieste confermano come racchiuda anche allarmanti «zone d’ombra», con ritmi insostenibili e sfruttamento diffuso, con piccole cooperative che spuntano e spariscono di continuo a cui si affidano anche i «colossi». Una realtà dove è più facile aggirare le leggi e i lavoratori non sono tutelati.


Ventiquattro dicembre. È pomeriggio quando su TikTok Luigi Spacca, giovane influencer che si divide tra i social e il lavoro da corriere, pubblica un video. Drammatico. «A poche ore dalla vigilia di Natale mi viene detto “Gigi, non ci sono buone notizie per te, mi sa che non continuiamo”. Dopo quattro rinnovi di contratto avrei potuto passare come indeterminato però a quanto raccontano non conveniva…». Così dice Luigi con la voce rotta dalla commozione. «Stanotte ho dormito a casa di mia madre, ancora non le avevo raccontato niente. Una scena che non dimenticherò mai da oggi in poi è stata quando lei si è girata verso i fornelli, probabilmente aveva mille pensieri… e io… e io non lo so… alle volte vorrei chiedere scusa a mia madre di avere un figlio così…».

Preoccupazioni, dubbi, timori di chi non aveva preventivato di passare le feste senza più la garanzia di un lavoro. Eppure, come racconta ancora Luigi, «ho dedicato un anno intero a tutto questo, facendo sacrifici e spaccandomi veramente le ossa. Figuratevi, sono andato a lavorare anche con un infortunio addosso, e alla fine ti viene detto: “Guarda che non sei un fenomeno”». Quasi fosse stato un ricatto. Quella di Luigi è la storia di centinaia di lavoratori. Il mondo della logistica e dei trasporti nasconde molte, troppe zone d’ombra. E una dimensione a tratti paradossale: c’è il business imponente da parte delle società leader del settore; al tempo stesso, sono frequentissime le condizioni di lavoro spesso usuranti e senza reali tutele.

Sono i numeri a rendere le dimensioni del fenomeno. Secondo una ricerca del Politecnico di Milano, il mercato della logistica, dopo la battuta d’arresto a causa della pandemia, ha raggiunto quota 91,8 miliardi di euro a fine 2022 (+2,8 per cento sull’anno precedente), con ben 84.500 imprese impegnate. Si stima che i lavoratori coinvolti siano 900 mila. Ciò che però gli addetti lamentano, secondo questo studio, è il forte aumento dei costi operativi. Che inevitabilmente si riversano su chi è alla base della «catena di montaggio».

Prova ne è l’ultima inchiesta della Procura di Milano, che ha portato al sequestro di beni per 102 milioni di euro a danno di due «colossi» come Brt e Geodis. Le accuse sono gravi. Secondo quanto si legge nel decreto, l’indagine ha «disvelato una complessa frode fiscale caratterizzata dall’utilizzo, da parte delle multinazionali, di fatture per operazioni giuridicamente inesistenti e dalla stipula di fittizi contratti di appalto per la somministrazione di manodopera, in violazione della normativa di settore».

Ricostruendo la filiera, sarebbe stato rilevato come, pur «facendo capo a un’unica regia», la manodopera venisse trasferita da una società all’altra «omettendo sistematicamente il versamento dell’Iva e, nella maggior parte dei casi, degli oneri di natura previdenziale e assistenziale». E questo senza «nessuna tutela per i lavoratori, «costretti» a passare da una cooperativa all’altra pena la perdita del posto di lavoro» scrive la Procura. Dagli atti emerge anche che da almeno due delle cosiddette società «filtro» al centro del presunto schema illecito sarebbero «transitati» circa 3.100 lavoratori, ossia «oltre il 60 per cento della forza lavoro complessiva».

Ovviamente saranno i giudici a dire la loro. Resta il fatto, però, che spesso il modus operandi è quello dei cosiddetti «serbatoi di manodopera» a basso prezzo, come sottolinea anche Michele De Rose, segretario nazionale lavoratori dei trasporti Filt-Cgil: «La consegna della merce viene spesso svolta da una galassia di piccole società o cooperative che, per guadagnarsi l’appalto, partecipano alla gara promettendo il massimo ribasso e restando sotto le soglie di mercato». A rimetterci, inevitabilmente, sono i lavoratori che «magari si ritrovano in busta paga la voce con i contributi che però non vengono versati all’Inps, con la conseguenza che non si matura la pensione» continua De Rose. «Sempre per questa corsa al ribasso, capita che i lavoratori vengano presi come “partita Iva” ma poi si ritrovano a fare un lavoro dipendente e non autonomo».

Non è un caso che l’inchiesta di Milano sia solo l’ultima di una serie impressionante che punteggia tutto il Paese. E non è un caso che del fenomeno pochi mesi fa si sia occupata anche la Commissione d’inchiesta parlamentare sulle condizioni di lavoro in Italia, che ha dedicato un intero capitolo al mondo della logistica e dei trasporti. Il quadro che emerge è allarmante: complice il massiccio utilizzo di algoritmi per massimizzare le prestazioni, spiega la relazione, il «processo di estrazione del profitto catalizza la precarietà dell’occupazione attraverso lo sviluppo dell’intermediazione illegale della forza lavoro e del meccanismo delle finte cooperative», costituite ed estinte per la durata di un appalto o di un subappalto con l’obiettivo di garantire ai lavoratori meno diritti e meno tutele. Il risultato? «Nel comparto esistono fenomeni di severo sfruttamento lavorativo con controlli e ritmi serrati che ricalcano le condizioni di lavoro nelle catene di montaggio degli anni Sessanta» si legge ancora nel rapporto.

Sono sempre i numeri, d’altronde, a certificare che più di qualcosa non quadra: nel 2020 (ultimi dati disponibili), l’ispettorato del Lavoro ha effettuato controlli su 869 cooperative, accertando illeciti nei confronti di 781 aziende, con un tasso di irregolarità pari al 78 per cento (circa il 66 per cento nel 2019). È stata inoltre verificata l’occupazione irregolare di 4.966 lavoratori, 223 dei quali totalmente «in nero». Come se non bastasse, gli ispettori hanno condotto un’azione di controllo anche in materia di appalto, distacco o somministrazione illeciti, riscontrando ben «12.714 posizioni lavorative irregolari». Stando così le cose, il passaggio estremo al reato di «caporalato» è semplice e più frequente di quello che si potrebbe immaginare. In estate una delle ultime inchieste ha riguardato il Nord-est e ha svelato un impero della logistica e della movimentazione merci basato sullo sfruttamento di lavoratori indiani, bengalesi e pakistani.

Appena arrivati in Italia, gli immigrati ottenevano un regolare permesso di soggiorno grazie all’immediata assunzione presso cooperative. Peccato che poi venissero sottoposti a una vigilanza pressante dell’organizzazione, che avevava piazzato in ogni cooperativa un proprio uomo con il compito di bloccare, con la minaccia e l’uso della forza, ogni tentativo di protesta o ribellione. Inoltre gli stessi lavoratori erano costretti a restituire una quota importante dello stipendio con la scusa di somme dovute per l’ingresso e l’impiego in Italia. Non solo: erano anche obbligati a soggiornare nelle case dei loro sfruttatori, spesso in situazioni degradanti, così da essere sottoposti a un controllo costante.

Modalità molto discutibili di lavoro sembrano interessare anche l’Interporto di Bologna, snodo centrale del mondo della logistica con i suoi quattro milioni di metri quadri di capannoni. «Uno che ha bisogno non ha tante scelte. Sappiamo che non è giusto, ma che ci possiamo fare? A chi lo vai a dire? E chi ti ascolta?» dice a Panorama K., lavoratore straniero proprio all’Interporto. Per mesi è stato occupato nel polo logistico tramite un’agenzia interinale: contratti brevi, tutele bassissime, diritti sistematicamente violati. «Ricordo ancora uno dei miei primi giorni. Ho fatto sette ore senza neanche un’interruzione, con una persona addosso che mi spingeva a lavorare sempre di più, mi seguiva anche in bagno per farmi stare il meno tempo possibile in pausa. Però pensi che sia normale all’inizio perché devi dimostrare di saper fare quel mestiere, così ti confermano. Poi ti rendi conto che è la normalità ed è sempre così, nonostante la paga sia misera». E se ti lamenti? «Semplice: vieni licenziato». Tutt’intorno lo stesso identico sistema, per quanto riporta la nostra fonte: nel tempo rimangono inalterati le aziende committenti e gli appaltatori, mentre cambiano le società in subappalto che hanno una breve durata, «ma hanno spesso gli stessi proprietari e rappresentanti legali». Un mondo a parte, dove per le regole non c’è cittadinanza.

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