Sono quelli a forte rischio nei prossimi mesi in importanti settori industriali. E nel 2022 la disoccupazione è prevista al 12 per cento. Ma a fronte di proteste legittime e richieste di ammortizzatori sociali, manca un vero piano per gestire ristrutturazioni non più rinviabili. Neanche dopo l’allarme di Bankitalia.
L’Europa dà, l’Europa toglie. Nei prossimi mesi, 24 mila persone verranno assunte per snellire le procedure di una delle burocrazie più lente dell’Ue. I soldi sono quelli del Recovery Fund, il pacchetto per uscire dalla crisi causata dalla pandemia cinese che per l’Italia vale ben 209 miliardi. Allo stesso tempo, sempre da Bruxelles, è in arrivo una direttiva sulla plastica monouso, già approvata nel 2019 in sede europea, che secondo Confindustria costerà oltre 20 mila posti di lavoro.
Visto che i nuovi impieghi pubblici, per aggirare le lungaggini dei concorsi, saranno a tempo determinato e riservati a laureati in legge, economia e scienze politiche, anche volendo non potrebbero essere assegnati a coloro che resteranno a casa per l’improvvisa accelerazione sulla lotta alla plastica.
È solo uno dei tanti esempi di quanto sia difficile gestire la famosa transizione da un settore all’altro dell’economia, che da noi rischia di costare 600 mila posti di lavoro. Anche con le migliori intenzioni, e la difesa dell’ambiente è tra queste, passa sempre un certo tempo prima che un lavoratore espulso da un comparto produttivo trovi spazio in un altro. Il dibattito pubblico, però, è concentrato sul mantenimento o meno del blocco dei licenziamenti, anziché sui rimedi duraturi alla piaga della disoccupazione. Che è come discutere di metadone, anziché di disintossicazione e guarigione.
Governatore inascoltato
Il complottismo esiste anche in economia: è quello che vede in ogni fatto imprevisto e di origine più o meno misteriosa, come il Covid o l’11 settembre, una scusa per imporre una ristrutturazione lacrime e sangue. L’uso della locuzione «ristrutturazione del capitale», non a caso, è assai cauto da parte di governi e politici.
Così ha fatto un certo effetto, lo scorso 6 giugno, sentire Ignazio Visco chiudere il Festival dell’Economia di Trento con un allarme sulla prossima ripresa, che sarà «complicata» e si accompagnerà a «una ristrutturazione ampia che non potrà essere lasciata nelle sole mani del mercato». E il governatore della Banca d’Italia ha aggiunto che «coloro che perderanno il lavoro dovranno essere protetti da una cassa di integrazione straordinaria che deve essere considerata in una riforma degli ammortizzatori sociali».
Repubblica fondata sul metadone?
Anche le ultime rilevazioni Istat su ripresa economica e disoccupazione dicono che per tornare ai livelli pre-Covid19 serviranno due anni, mentre decine di migliaia di persone continueranno a perdere il posto. Secondo l’istituto di statistica, nel 2021 il Pil salirà del 4,7 per cento e nel 2022 la crescita sarà di un altro 4,4. Insieme, fanno un recupero del 9,1 per cento nel biennio, però nel solo 2020 il Pil era arretrato dell’8,9. Ma con il Pil crescerà anche la disoccupazione. Almeno nel breve periodo.
Nel 2019 il tasso di disoccupazione era al 10 per cento, quattro punti più della media europea. Insomma, l’Italia partiva già male senza il maleficio di Wuhan. Ad aprile 2021, l’occupazione era in ripresa del 4,5 per cento. Invece il tasso di disoccupazione è previsto al 9,8 per cento nell’intero 2021 (era all’8,9 per cento a fine 2020). Insomma, non è un caso se, mentre sindacati e partiti litigano sulla fine del blocco dei licenziamenti, la Banca d’Italia suggerire di riformare gli ammortizzatori sociali. Ovvero, di lasciare il metadone per la morfina.
Era meglio licenziare prima?
Il blocco dei licenziamenti per motivi economici, entrato in vigore il 20 marzo 2020, è stato solo una misura di ordine pubblico, perché chiunque abbia un’attività economica e sia entrato in crisi vi dirà che se fosse stato autorizzato a licenziare già lo scorso settembre probabilmente avrebbe salvato più dipendenti di oggi.
Rimandare una ristrutturazione spesso porta a un conto finale più salato. Sempre che non si fallisca prima. Solo per ricordare alcune delle posizioni in campo, La Confindustria era contraria al blocco dei licenziamenti, mentre i sindacati erano a favore almeno fino a fine ottobre. Matteo Salvini e la Lega, inizialmente sulle posizioni dei datori di lavoro, alla fine hanno scelto di distinguere tra settori più dinamici e in espansione e settori in crisi nera, ai quali andrebbe ancora impedito di licenziare. Il ministro del Lavoro, Andrea Orlando, partito per la proroga di almeno due mesi del blocco, alla fine ha scontentato tutti, lasciando cadere il divieto dal 30 giugno – del resto un unicum in Europa – ma annunciando lunghe proroghe della cassa integrazione nelle situazioni aziendali più compromesse. Che poi, spesso, per i politici coincidono solo con quelle più vistose o che pesano in termini di consensi.
Contratti scaduti
Mentre l’arrivo della stagione balneare crea di nuovo l’illusione ottica di un’Italia come un’immensa pizzeria a cielo aperto, con i giovani in coda per l’aperitivo, interi settori stanno per affrontare una ristrutturazione durissima. Secondo l’ufficio studi di Intesa Sanpaolo, dall’inizio della pandemia 900 mila persone hanno perso il lavoro e il picco della disoccupazione annua media sarà toccato l’anno prossimo con il 12 per cento.
Le ultime previsioni del ministero del Lavoro e di Bankitalia vedono a rischio 477 mila lavoratori a partire dal 30 giugno, quando per le grandi imprese salterà il blocco dei licenziamenti (nel caso si possa accedere alla cassa ordinaria). Ma si arriverà a quota 600 mila al 1° novembre, quando si potrà licenziare anche nelle piccole e medie industrie e nel terziario.
Uno dei settori più in crisi è il tessile, abbigliamento e moda, che dà lavoro a 450 mila persone, in gran parte donne. Ai primi di giugno i sindacati hanno dichiarato lo stato di agitazione per il blocco delle trattative del contratto collettivo (scaduto da un anno e mezzo), ma il primo problema rischia di essere la scomparsa del lavoro. Secondo un dossier consegnato al governo da Sistema Moda Italia, nei prossimi tre anni sono a rischio 70 mila posti e alla fine della moratoria, nella sola Lombardia, potrebbero restare senza lavoro in 20 mila. Nel 2020, il tessile ha perso 13,3 miliardi di fatturato (-23,7 per cento sul 2019).
Il costo dell’elettrico
Soffre anche l’auto, filiera con oltre 5.500 imprese che vale il 6,2 per cento del Pil e il 7 per cento degli occupati dell’industria manifatturiera. Già prima della pandemia i sindacati temevano che un posto su due fosse in pericolo e del resto, calo delle immatricolazioni a parte, produrre un’auto elettrica richiede un 30 per cento di mano d’opera in meno. C’è ovviamente grande attesa per l’accelerazione delle varie case automobilistiche sui motori elettrici, ma sia Akio Toyoda, numero uno di Toyota, sia Carlos Tavares, a capo di Stellantis, il mese scorso hanno sottolineato che la svolta ecologica «è stata calata dall’alto», dai governi e dalla politica, che le vetture elettriche sono ancora costose per la classe media (35 mila euro, quando si trovano diesel alla metà) e danno pochi utili. Così in Germania, mercato di riferimento per l’auto e primo sbocco dei fornitori italiani, sono a rischio 200 mila posti su 613 mila nei prossimi cinque anni, proprio a causa della svolta green.
Quel che sanno gli imprenditori
Altro comparto in piena effervescenza è quello della logistica, che in Italia dà lavoro a oltre un milione di persone. Qui, con lo sviluppo dell’e-commerce ci sono ampi margini di crescita, ma con l’aumento ancor più veloce dell’automazione è in bilico un posto su quattro. Il tutto in una situazione complicata da gestire, tra turni massacranti, Far West delle cooperative e dei subappalti, infiltrazioni mafiose in aumento nelle ditte di trasporto. Il problema è che se anche il saldo tra posti di lavoro bruciati e creati fosse a zero, nessuna azienda sana assume il primo che passa; e un ambito produttivo in cui ognuno accetta, per disperazione, il primo lavoro offerto, non è certo ottimale.
Come ha ricordato di recente Christopher Pissarides, premio Nobel per l’economia nel 2010, discutendo con la McKinsey della ripresa post-pandemia, «quello che serve agli imprenditori non lo sanno né gli economisti né i politici, ma solo gli imprenditori stessi». Tutto il resto rischia di essere chiacchiericcio.
