Quando si analizzano le caratteristiche economiche e sociali dell’Italia, l’attenzione prevalente appare sempre più rivolta ai dati congiunturali e alle dinamiche del momento. Un interesse necessario per comprendere lo stato del Paese e di cui soprattutto politica ed informazione si nutrono. Tuttavia, è altrettanto opportuno rivolgere l’attenzione ai fenomeni strutturali che questi dati sottendono e che attraversano la nostra economia e la nostra società. Senza comprendere queste dinamiche di medio-lungo periodo, infatti, si fa fatica a programmare il futuro del Paese.
Tutti i grandi Paesi hanno istituti di ricerca che si dedicano ai megatrend. In Italia questo esercizio difetta ancora. E nonostante il richiamo agli orizzonti lontani – 2035, 2050 e varie altre date – manca una strutturata capacità di previsione e analisi. Prendiamo un esempio, quello dello «stato di salute» del lavoro indipendente (o autonomo). Questo aggregato di lavoratori e lavoratrici era considerato un fattore caratterizzante la nostra economia e società, un elemento di vitalità del mercato del lavoro, un insieme che spiegava molto del «miracolo» economico e della ricchezza dell’Italia.
Oggi è considerato un fattore di debolezza, un coacervo di figure indistinte, a volte anche un insieme da combattere perché in esso si anniderebbe il lavoro precario e sfruttato. Una percezione giusta o una miopia della cultura statalista italiana? Fornire una risposta non è facile. Da alcuni anni il lavoro indipendente mostra una progressiva discesa di numerosità. Una discesa iniziata con un primo «scossone» negli anni Novanta poi, dopo una ripresa agli inizia del secolo, divenuta un rovinoso crollo dal 2008, l’inizio della recessione (o grande crisi), senza che vi sia nessun segnale di ripresa.
Oggi l’Italia conta 5 milioni di lavoratori indipendenti, una quota superiore al 20% del totale degli occupati, e rimane di gran lunga il primo dei grandi Paesi europei ad avere questa consistenza. Nondimeno, nel periodo di massimo fulgore questa quota avvicinava 6 milioni e 500.000 unità. Che cosa sta succedendo? La sua caduta può essere messa in corrispondenza con la scomparsa della cosiddetta classe media? E quanta di questa caduta è un effetto economico legato alle trasformazioni del mercato del lavoro e quanta è invece il portato di una normativa (lavorista e fiscale) che nel corso degli anni ha penalizzato (o punito) questa categoria di lavoro?
Sono domande complesse a cui bisognerà dare risposte più attente se vogliamo capire dove va la società italiana. La domanda che occorre porsi è, soprattutto, che tipo di lavoro autonomo dipinge oggi questo aggregato. È sempre il «vecchio» lavoro autonomo oppure si sta compiendo una trasformazione più strutturale? Questa definizione riesce a leggere le nuove forme di lavoro legate all’economia digitale, alla gig economy, a diverse modalità di essere imprenditori di sé stessi? E quali le caratteristiche In termini di demografia, sesso, tipo di lavoro, distribuzione geografica, tipologia lavorativa? Quanto il lavoro indipendente è ancora composto da partite Iva e collaboratori? Una più granulata fotografia sarebbe oggi necessaria dal punto di vista statistico.
D’altra parte, la stessa scienza giuridica ha messo in dubbio negli ultimi anni la distinzione tra lavoro dipendente e lavoro indipendente, di fatto non riuscendo più a raffigurare confini e identità precise in merito. E l’anniversario dei 50 anni dello Statuto dei lavoratori sarebbe una grande occasione per mettere ordine e aggiornare una fotografia che sembra assai datata sotto molti aspetti. Appare quindi opportuno che la statistica inizi a fare qualche ragionamento più approfondito sulla classificazione e definizione di questo aggregato, anche prendendo spunto dalle riflessioni avanzate abbastanza recentemente su questo tema in sede Ilo (l’Organizzazione internazionale del lavoro) e che hanno individuato una nuova figura, quella del dependent contractor (l’appaltatore dipendente), ridisegnando il confine tra lavoro dipendente e lavoro indipendente.
Quanto questa nuova definizione possa leggere meglio le trasformate caratteristiche del mercato del lavoro e individui nuove figure professionali è ciò che ci attendiamo che ci possano offrire i dati statistici. Quanto ciò possa contribuire a una diversa lettura dell’economia e della società italiana è quanto verificheremo con la disponibilità di questi dati. In ogni caso, ciò che è importante è che terminino interventi fiscali e di diritto del lavoro che penalizzano una forma di lavoro essenziale per dare vitalità all’economia e che, invece, sulla base di questi nuovi dati si possano implementare interventi di promozione e accompagnamento alla nuova imprenditorialità del ventunesimo secolo.
