La settimana appena trascorsa ha prodotto due importanti dati economici: le stime preliminari del Pil relative al quarto trimestre 2019 e i dati sul mercato del lavoro del mese di dicembre 2019. Entrambi sono stati negativi e hanno raffreddato le aspettative per un 2020 significativamente migliore del 2019. Che l’Italia non sia in perfetta forma è abbastanza noto, ma la crudezza dei dati è servita per fotografare alcuni fenomeni forse non ancora chiari.
Dei dati sul Pil si deve sottolineare l’estrema debolezza mostrata dal settore manifatturiero, una debolezza che si è manifestata per tutto il 2019, con un arretramento della produzione industriale e con una tendenza a un profilo piatto anche per il primo semestre 2020. E senza la spinta dell’industria, è ormai dimostrato, non si cresce; a maggior ragione l’Italia che rimane la seconda economia manifatturiera in Europa.
Dei dati sul mercato del lavoro, invece, va certamente ricordato che oggi siamo ai massimi storici come numero di occupati, sicuramente un miracolo se lo confrontiamo all’andamento della economia degli ultimi mesi. Al tempo stesso, proprio perché l’economia è debole, questo risultato è estremamente fragile e può franare rovinosamente. E in effetti, 75mila occupati in meno in un mese come è avvenuto a dicembre è un passo indietro preoccupante, considerato che la perdita avviene tutta nei contratti a tempo indeterminato, contratti che le politiche degli ultimi governi hanno cercato di sostenere in tutte le maniere.
E se la tendenza alla crescita dell’occupazione rimane positiva è altrettanto evidente che sta progressivamente decelerando. I dati di dicembre ci segnalano, poi, che il calo occupazionale si sta accentuando nel lavoro autonomo, quello che una volta era una caratteristica peculiare del mercato del lavoro italiano. Ci sarà molto da indagare su questo fenomeno, da capire quanto abbiano inciso le normative restrittive, dal Jobs Act in poi, quanto abbia graffiato la crisi, quanto ciò sia il frutto dei cambiamenti dell’economia. In ogni caso, queste difficoltà limitano le fonti di creazione di posti di lavoro e questo non è generalmente un bene.
Altro fenomeno che merita maggiore attenzione è la progressiva perdita di occupazione nella fascia centrale di età (-215.000 in un anno, -51.000 in un mese). Certamente è grave che continui ad essere elevata la disoccupazione giovanile e difficile la prima entrata nel mercato del lavoro e che le politiche a sostegno continuino a essere insufficienti. Nondimeno, ancora più grave è la perdita di occupazione nella fascia di età 35-49, quella che sostiene una famiglia, che ha già una carriera professionale e che è più difficile poi da riqualificare e reinserire nel mercato del lavoro.
In Italia è quello che sta accadendo, complice anche – come ricorda l’Istat- un effetto demografico ma anche a causa delle tante crisi industriali in corso e della incapacità a risolverle, degli squilibri di territori una volta industrializzati e che oggi non trovano più una loro «missione», di politiche di reindustrializzazione inefficienti che mai hanno modificato le caratteristiche di un territorio, come invece è avvenuto in altri Paesi, in Europa e fuori dall’Europa. È un segmento di popolazione o una parte del Paese su cui si è voluto intervenire più con assistenza che con politiche di attivazione, più con sostegno del reddito che con investimenti sul capitale umano e sulle infrastrutture.
La scarsità di risultati imporrebbe oggi una azione strategica che preveda nuovi ammortizzatori sociali, diversa formazione e riorientamento al lavoro, maggiore attenzione a una transizione produttiva: anche in questo caso però non si intravede molto all’orizzonte. In definitiva, una cosa è certa: l’Italia è ancora lontana da quella robusta ondata di creazione di posti di lavoro che permise all’Economist, nella scorsa primavera, di affermare che nelle nazioni industrializzate vi era un boom di occupazione.
Ancora oggi quel boom non si è spento, basta osservare i dati degli Stati Uniti o anche quelli della Germania, considerati ormai vicini, se non in piena occupazione. Occorre, dunque, maggiore analisi e capacità di scandagliare le informazioni da un lato (e qui l’operatore pubblico può ancora fare molto) e dall’altro costruire politiche per aumentare il tasso di occupazione della nostra economia, al fine di favorire lo sviluppo e sostenere il nostro sistema di welfare. Perché non possiamo «essere il peggior mercato del lavoro in Europa» e neppure pensare che l’assistenza sia meglio del lavoro, perché il solo lavoro possibile è quello a tempo indeterminato.
