Il Pnrr non è la panacea. Le manovre protezionistiche e keynesiane di Usa e Cina spingono le materie prime. Da noi salari bassi e scarsa produttività uniranno l’inflazione alla stagnazione. Ne beneficerà il debito pubblico, ma per i ceti medio bassi sarà un salasso. Andrebbe riformata la burocrazia, fatta crescere l’industria e messo i risparmi direttamente nelle imprese.
Nubi si addensano sul futuro economico dell’Europa e dell’Italia. Se la prevista crescita del Pil tricolore del 5% nel 2021 è per lo più frutto della credibilità con cui Mario Draghi garantisce sui mercati e suscita una buona disposizione degli investitori verso l’Italia, meno confortante è lo scenario generale. Di recente il ministro del Tesoro, Daniele Franco, ha osservato che il Recovery plan non sarà la panacea che gran parte dei commentatori si aspettavano e che serviranno riforme ed investimenti ulteriori per dare qualche speranza alla ripresa economica nei prossimi anni. Più volte lo stesso Draghi ha lasciato trapelare la necessità di rompere definitivamente con il vecchio paradigma dell’austerità per riavviare la crescita europea. Il Pnrr è solo il punto di partenza e non di arrivo per una Europa costretta a confrontarsi con i mega piani di stimolo varati dagli Stati Uniti di Biden e dalla Cina di Xi. Le due potenze mondiali, infatti, hanno deciso di spendere proporzionalmente molto più di quanto ha fatto l’Unione europea. Lo stesso vale per il Regno Unito di Boris Johnson, la potenza di mezzo tra Usa e Vecchio Continente. La riapertura post-pandemica, la ripresa dei consumi e proprio le manovre di politica economica dei due giganti hanno mandato alle stelle i prezzi delle materie prime, determinato la scarsa disponibilità delle stesse e avviato una esplosione dei costi della logistica (il costo di un container Asia-Europa è decuplicato). Il tutto si traduce sul piano europeo in una crescita dei ricavi delle aziende a cui però si accompagna una riduzione dei profitti e un aumento del costo di investimenti e infrastrutture. Molti esperti ancorati al vecchio paradigma sono pronti a giurare che si tratti di un momento di transizione destinato a riassorbirsi, ma le manovre protezionistiche e keynesiane di Cina e Stati Uniti potrebbero protrarre questo andamento per diversi anni. In termini economici, ciò può comportare una rialzo dell’inflazione. Evento che appare quasi inevitabile sia per il quadro appena descritto che per l’enorme quantità di liquidità immessa nel sistema globale negli ultimi due anni. Se i debiti pubblici non si possono ripagare, o meglio sostenersi nel lungo periodo sui mercati, non resta che la svalutazione monetaria. Tuttavia, l’inflazione non è una notizia positiva soprattutto se i leader politici europei non riusciranno ad accompagnarla con immediati investimenti infrastrutturali e con una politica fiscale a favore delle imprese. Un aumento inflazionistico si traduce infatti in una tassa a carico dei ceti medio-bassi i quali potrebbero non essere ripagati da un aumento rilevante dell’occupazione. Come se non bastasse, inoltre, le politiche green si stanno già traducendo in un aumento delle bollette e potrebbero nel medio periodo non essere così efficaci nel creare occupazione, ma al contrario portare verso l’esaurimento settori importanti per la manodopera.
Lo scenario della stagflazione, inflazione più stagnazione, non può dunque più essere escluso dalle previsioni per i prossimi anni. In Italia il problema è particolarmente complesso: l’inflazione può aiutare il nostro enorme debito, ma anche mettere in difficoltà una fascia di popolazione già pesantemente colpita dalla pandemia. Senza dimenticare che la nostra industria e la struttura del welfare soffrono di storture tali che anche il governo Draghi stenta a rimettere a posto. Da Ilva ad AirItaly passando per Whirlpool e Stellantis si continua a ricorrere alla cassa integrazione, strumento di tamponamento non risolutivo, e si varano piani destinati a ridurre l’occupazione sul suolo italiano nel medio periodo. E anche se le incognite di macro scenario sopra descritte dovessero rientrare o risultare momentanee, serviranno comunque anni al nostro paese per tornare competitivo sul piano industriale.
Cosa può fare la politica in questa situazione? Tre sono i sentieri che il governo italiano dovrebbe cercare di percorrere contemporaneamente. Il primo è negoziare con l’Unione europea una maggiore spazio in bilancio anche nei prossimi anni che vada a finanziare politiche fiscali esclusivamente a favore dell’industria e delle infrastrutture, un sorta di “deficit destinato” volto a far ripartire il lavoro e la produzione. Il secondo è una radicale semplificazione delle procedure burocratiche e la liberalizzazione di alcuni settori inefficienti soprattutto nei servizi pubblici locali invece di ricadere in un nuove forme di pianificazione ed intervento pubblico ad ampio raggio. Il terzo è la necessità sempre più impellente di spingere il risparmio degli italiani verso circuiti finanziari che possano arrivare direttamente alle imprese o trasformarsi essi stessi in attività d’impresa. Le tre strade si tengono e forse sono l’unica mappa da seguire a disposizione dell’esecutivo per gestire il rischio stagflazione.
