L’effetto coronavirus si ripercuote a catena in tutti i settori. Confcommercio stima un «rosso» tra 5 e 7 miliardi. A pagare il prezzo più alto: turismo, fiere, automotive e beni di lusso. E più di 15 mila piccole e medie imprese adesso sono a rischio.
Tra i 5 e i 7 miliardi è l’impatto sul Prodotto interno lordo italiano stimato dalla Confcommercio se la crisi dovesse protrarsi oltre giugno. Sessantamila sono i posti di lavoro in pericolo secondo le previsioni di Confesercenti con una perdita di consumi attesa di quasi 4 miliardi. Ottocento i milioni di euro già andati in fumo nel turismo, con il 44 per cento di calo negli incassi dei cinema italiani nel primo fine settimana dall’inizio dell’emergenza. Cinquecento sono le aziende agricole a rischio paralisi negli 11 comuni della zona rossa fra Lombardia e Veneto.
Sono solo alcuni numeri del possibile impatto del coronavirus sulla già debilitata economia italiana. Per un primo bilancio bisognerà attendere almeno tre mesi, dicono gli esperti, aggiungendo che tutto dipenderà dalla rapidità con la quale il focolaio di epidemia verrà messo sotto controllo. Il problema è che a essere il più colpito è stato, finora, il motore produttivo della Penisola: Lombardia e Veneto rappresentano il 30 per cento circa del Pil italiano e una potenziale decelerazione seguirebbe i recenti dati macro deboli, con il Pil in calo dello 0,3 per cento nel quarto trimestre 2019 e con i 75 mila posti di lavoro persi a dicembre. L’epidemia ha messo pressione al ribasso sulle già precarie stime di crescita dell’Italia, aumentando i rischi di recessione.
La prima conta dei danni fa già paura. Secondo il segretario generale di Confcommercio, Luigi Taranto, se l’emergenza continuerà, tra marzo e maggio nel settore del turismo sono a rischio 21,7 milioni di presenze con una riduzione di spesa di 2,65 miliardi mentre nel settore dei pubblici esercizi è già stato valutato un rischio occupazionale di circa 100 mila unità. Confesercenti parla di «una stima conservativa» di quasi 4 miliardi di euro di consumi persi, basata sull’ipotesi di una crisi limitata. La frenata avrà conseguenze pesanti sul tessuto imprenditoriale: potrebbe portare alla chiusura di circa 15 mila piccole imprese in tutti i settori, dalla ristorazione alla ricettività, passando per il comparto distributivo e i servizi. L’impatto sull’occupazione potrebbe superare i 60 mila posti di lavoro. «La stagione primaverile, che vale il 30 per cento circa del fatturato totale annuo del turismo, appare seriamente compromessa, con la prospettiva di ulteriori danni per alberghi e bed&breakfast, ma anche bar, ristoranti e attività commerciali», conferma Confesercenti.
Le frontiere dei Paesi confinanti per ora restano aperte e nessuno ha chiesto di sospendere Schengen, ha fatto sapere la Ue. Ma si moltiplicano gli Stati che sconsigliano viaggi nelle aree italiane dove è scattata l’emergenza. Il turismo, da solo, vale il 12,5 per cento del Pil nazionale. Federturismo ha stimato, al momento, un danno che si aggira sui 320 milioni. Un dramma sul cosiddetto versante «incoming», considerando il periodo pasquale, notoriamente stagione di picco. Federalberghi, che raggruppa oltre 32 mila strutture ricettive, rincara la dose, ricordando che solitamente nel mese di febbraio si registrano oltre 14 milioni di arrivi, 40 milioni di pernottamenti per incassi stimati intorno ai 4,5 miliardi, che quest’anno si dimezzeranno.
Le prime stime di perdite economiche complessive, tra viaggi all’estero e quelli in entrata si aggirano sugli 800 milioni, e riguardano mancati incassi e pagamenti già effettuati ai fornitori di servizi. A questo si aggiunge il caos sulle penali, poiché le disposizioni e limitazioni al movimento, riguardando solo alcune regioni, pongono interrogativi sul riconoscimento di rimborsi per viaggi.
Anche spostarsi per lavoro è diventato un problema. Da e verso l’Italia. Finisce così in ginocchio il turismo congressuale e delle fiere. Per esempio, sono già stati cancellati decine di congressi organizzati dagli ordini professionali e il rischio dell’annullamento di altri eventi, anche e soprattutto nel settore del «wedding» internazionale di lusso che, con questa tipologia di matrimoni, genera un mercato da un miliardo di euro, è altissimo.
L’impatto maggiore per Milano è però arrivata col rinvio a giugno del Salone del Mobile, la rassegna prevista in aprile e visitata l’anno scorso da oltre 386 mila persone provenienti da 181 Paesi. Alla Fiera di Rho erano attesi 2.200 espositori. Inizialmente la stima era di avere circa 30 mila visitatori in meno dalla Cina, poi il problema coronavirus è arrivato in Italia. Per Federlegno riprogrammare il Salone è stata una scelta obbligata perché una cancellazione definitiva sarebbe costata attorno agli 1,3 miliardi. Altre importanti fiere, come quella degli occhiali a Milano o il Cosmoprof a Bologna, sono state rinviate. In generale, parliamo di un comparto che ogni anno coinvolge circa 200 mila espositori e 20 milioni di visitatori, genera affari per 60 miliardi e dà origine a metà delle esportazioni delle imprese che vi partecipano. Numeri importanti che crescono se consideriamo anche l’indotto come trasporti, ricettività e ristorazione. A fare eccezione è Vinitaly che ha confermato l’appuntamento dal 19 al 22 aprile, mentre per tutte le altre manifestazioni previste a marzo e aprile Veronafiere ha spalmato le date tra maggio e novembre.
Fin qui l’economia reale. Poi ci sono i mercati. Nella settimana «calda» dei contagi a catena è salita la febbre in Piazza Affari, lo spread ha ripreso vigore, i rendimenti di Btp a 10 anni sono aumentati e l’euro rispetto al dollaro è sceso ai livelli di maggio 2017. E insieme alla febbre del virus è arrivata quella dell’oro, il bene rifugio per eccellenza sul quale molti risparmiatori stanno mettendo di nuovo le mani. Nel prevedibile prossimo spostamento delle masse di capitali non ci saranno solo le famiglie italiane, ma anche e soprattutto gli investitori istituzionali, che muovono il grosso del settore. Proprio mentre ancora è alta l’onda dello tsunami cinese che nelle ultime settimane stava già creando problemi agli approvvigionamenti di centinaia di aziende. Perfino chi in Cina non ha fabbriche né reti commerciali, scopre che nei propri prodotti sono incorporati componenti che arrivano da là e adesso scarseggiano.
L’Italia dovrà infatti fare i conti non solo con gli effetti del contagio ma anche, insieme agli altri Paesi, imparare a fare a meno della Cina. Il giro d’affari delle aziende del lusso subirà un calo a livello mondiale tra i 30 a i 40 miliardi a causa del Covid-19 che ha provocato un arresto improvviso delle vendite in Cina. Secondo un sondaggio realizzato da Alliance Bernstein e Boston consulting, i manager del settore mettono in conto una riduzione delle vendite del 9-11 per cento e del 13 per cento degli utili. Senza dimenticare l’automotive, e dunque anche l’indotto della meccanica: in Cina le vendite di auto per il trasporto di passeggeri hanno segnato a gennaio un tonfo annuo del 20,6 per cento, a 1,6 milioni di unità, e uno congiunturale del 27,4 per cento. È il diciannovesimo mese di fila di contrazione. Il «cigno nero» del Covid-19 mette in quarantena un’economia mondiale già fragile e vulnerabile, facendo emergere il lato oscuro della globalizzazione.
La vita ai tempi del coronavirus

C’è chi «telelavora» da casa e le giornate non passano mai. C’è chi è partito per la seconda casa e chissà quando tornerà. Chi ha scelto la paura e chi ha già voglia di ricominciare. Ci sono i ragazzi, e da loro si dovrebbe imparare a sdrammatizzare. Viaggio nella strana Milano del Covid-19.
di Massimo Castelli
Meglio morire di coronavirus che restare un altro giorno in casa con mia madre». Viola ha 14 anni e per oggi ha vinto la sua battaglia: può uscire. Seduta su una panchina in zona Moscova, quartiere-bene di Milano, si gode il suo momento insieme all’amica del cuore. «Di paura noi ragazzi non ne abbiamo, lo sappiamo che il virus prende gli anziani. Ma i miei sono in paranoia e mi costringono a stare segregata. Non pensavo di poterlo dire, però vorrei che ricominciasse la scuola».
Benvenuti nella città del fare, oggi città del sopravvivere. Scuole, musei, chiese, teatri, cinema, palestre, tutto chiuso. Il Covid-19 è arrivato come uno tsunami portandosi via la normalità e non resta che districarsi tra il timore di un nemico che non si vede e le necessità di tutti i giorni, che sia uscire con l’amica – come nel caso di Viola – o lavorare. Soprattutto, lavorare.
Isabella G., 32 anni, era abituata a un bell’ufficio in centro – una società bancaria – ma oggi è costretta a rintanarsi nel suo bilocale zona Navigli insieme al gatto Ben. Fa «smart working», ovvero porta avanti i progetti connettendosi ai sistemi informatici aziendali e organizzando telefonate di gruppo con i colleghi come surrogato delle riunioni (le cosiddette «call», in inglese). La maggior parte degli uffici a Milano ha reagito all’epidemia in questo modo, limitando al minimo spostamenti e contatti grazie al telelavoro. Alla prova dei fatti, un’ottima idea: nei giorni scorsi Isabella si è sentita male. «Raffreddore, mal di gola e tosse. Avevo appena una linea di febbre ma il dubbio mi è venuto: non è che mi sono presa il Coronavirus?» racconta a Panorama. «Ho chiamato il numero dedicato all’emergenza e mi hanno risposto di telefonare al medico di famiglia, la quale mi ha liquidata dicendomi che forse ero contagiata, o forse no, ma che il tampone non me lo facevano perché quello scatta solo con sintomi gravi o in caso di contatto diretto con pazienti infetti, e che dovevo rimanere in casa per non diffondere l’eventuale contagio… In sostanza mi ha chiesto di mettermi in auto-quarantena dopo un’auto-diagnosi. Mi chiedo che senso abbia parlare di dieci o trecento casi se i numeri reali non si è in grado di scoprirli». Si è messa in malattia? «Macché, lavoro, almeno passo il tempo».
C’è un’aria da autogestione in giro. Ognuno si dà le regole che ritiene giuste in base alla propria sfumatura di inquietudine. Che prima era altissima, ma oggi sempre più bassa: ci si vuole dare un colpo di reni e ricominciare una vita all’incirca normale, forse giudicando il virus poco più di un raffreddore, forse convinti che questo tasso di mortalità sia «accettabile», che anche se ci si ammala poi passa. Dunque convivono due anime: quelli con la mascherina e quelli senza; quelli che «moriremo tutti» e quelli che «reagiamo!». Così capita che al supermercato Carrefour di viale Abruzzi qualcuno saccheggi gli scaffali, mentre altri chiedano alle cassiere che indossano la mascherina di non drammatizzare, che sono precauzioni inutili, che se le possono pure togliere (inascoltati). Stessa lezione a un ufficio postale in zona stazione Centrale: c’è chi sta in coda all’esterno, mantenendo la distanza di sicurezza, e chi affolla la sala già gremita di un pubblico tossicchiante e indifferente a eventuali contagi trasmessi o subiti. Entra una donna con due bambine intorno ai 4-6 anni e il direttore le chiede con gentilezza di lasciarle fuori, che l’aria è migliore. «Chiudono le scuole e lei le porta proprio qui…». Poi, allargando le braccia con l’espressione rassegnata del soldato in trincea, spiega: «Oggi sono passate 200 persone in sala, venti alla volta. Pensavo ci fosse buon senso invece vengono anche solo per rimandare indietro un pacco Amazon. Ma davvero vuoi rischiare la vita per un pacco Amazon? Dai piani alti ci hanno detto di portare pazienza, di organizzarci. Non ci danno né mascherine, né disinfettante per le mani. Quello ce lo compriamo di tasca nostra».
A proposito di gel, in una farmacia di corso Buenos Aires le 240 confezioni di disinfettante arrivate in mattinata sono state vendute, riporta la dottoressa, in meno di due ore. Appena fuori un ragazzo starnutisce a mezzo metro dalla guardia giurata che gli grida contro. Lui risponde: «Fammi causa!». Poco distante da lì, all’ingresso della metropolitana Caiazzo un uomo dichiaratosi cingalese vende mascherine a 10 euro ma è disposto a scendere a 6, considerando che il fuggi-fuggi dai mezzi pubblici ha ammazzato gli affari.
È più o meno l’ora di pranzo ma alla pizzeria Spontini non c’è ombra della solita coda. «Si fanno molti meno scontrini, non ci possiamo nascondere la realtà» ammette il ragazzo alla cassa. «Questa psicosi collettiva non fa uscire la gente di casa. Però sono aumentati moltissimo gli ordini da asporto con le consegne a domicilio. Come se questi ragazzi che girano in bici e magari poi bivaccano alla stazione non potessero attaccarti niente». Tra i pochi seduti, Lucia M. e il suo bambino undicenne si gustano un trancio di margherita in un angolino del locale. «Siamo venuti qui perché com’è noto è meglio evitare i luoghi troppo affollati» spiega, per poi raccontare. «Io lavoro nelle produzioni teatrali e purtroppo siamo completamente fermi. Non rimane che aspettare la fine di questo brutto periodo. Domani partiamo, ci trasferiamo nella nostra casa nelle campagne di Lecco. Meglio in mezzo alla natura che in questo mortorio di città».
Qualcuno ha approfittato della sospensione della settimana bianca con la scuola per andare comunque a sciare, ma in famiglia. Proprio come ha fatto Alberto P., ingegnere informatico. La moglie è grafica editoriale e lasciare il giornale non è possibile, ma a lui è concesso il telelavoro e così ha portato il figlio nella casa in montagna fino a data da destinarsi. «Per ora fa i compiti assegnati per le vacanze, poi si vedrà». Chi può parte insomma, e chi non può si organizza: non si contano le mamme che fanno a turno a tenere i figli degli altri. «Quello che per noi è un incubo, loro lo ricorderanno come una festa continua» ci scherza su Franca Banti, madre di Oscar, che ha 5 anni e tre compagni con cui far baldoria ogni giorno in una casa diversa.
La fatica di ritrovare una normalità sta tutta nel sacchetto di cibo con cui la trentenne Benedetta Cremona esce da un negozio Picard. Dentro c’è una scorta di ravioli cinesi surgelati. «Mi mancavano troppo ma al ristorante non ci vado, men che meno a Chinatown: ormai è un quartiere fantasma, hanno chiuso ogni singola attività». Variegata e abbondante invece la spesa di Carla M., che ha due figli di 13 e 16 anni, un marito e un cane ad aspettarla a casa, zona Loreto. Anche lei fa il telelavoro, ma le cose non vanno come sperato. «La nostra è una clausura forzata. Lo spazio è quello che è. Non nascondo che in famiglia cominciano a esserci tensioni. Sopportarsi tutto il giorno, tutti i giorni, non è facile. Oggi per fare quattro riunioni telefoniche mi sono dovuta chiudere in cucina. Ieri stavo impazzendo e sono andata in ufficio anche se non avrei dovuto» confessa. «Il fatto è che non siamo abituati. Normalmente siamo attivissimi tra lavoro, aperitivi, amici, figli… e a casa si sta il giusto. Anche i ragazzi sono pieni di impegni, ma adesso che è tutto sospeso se ne stanno lì a ciondolare, guardano la tivù, ascoltano musica, passano ore col telefonino in mano. A vederli così vado fuori di testa».
Livia F. ha un problema simile: «Sto a casa dal lavoro perché ho la febbre a 37,2 e non si sa mai. Ma tengo a casa anche i miei due figli, e per la grande, ventenne universitaria, è devastante. Senza lezioni e altre attività ti mancano gli obiettivi, ti senti in stallo. Stimolarli non è facilissimo. Cerco di non farli vegetare al cellulare. Ma tenersi su è una condizione utile a tutti, anche agli adulti, abituati come siamo a fare i conti con gli impegni esterni più che con noi stessi. Questa forma di asocialità forzata è alienante ma da un punto di vista etico è corretta» riflette. «E se fossimo portatori sani? Per questo non andiamo a trovare i miei genitori: per timore di portarglielo noi, il virus. Gli anziani sono abbandonati a se stessi. La vera emergenza è per loro. Andrebbe ricordato a quei milanesi che vogliono tornare alla normalità e già programmano il “weekendino”».
Se c’è una fascia della popolazione che proprio non si abbandona alla dissoluzione psicologica è quella dei preadolescenti o giù di lì. Emma, Allegra e Luca, studenti di terza media, incassato il divieto di andare in giro per la città si ritrovano a casa ora di uno, ora dell’altro. Soprattutto in quella di Emma perché la mamma è costretta al telelavoro e può tenere tutti d’occhio. «Ieri ci ha ritirato il cellulare perché lo usavamo troppo e siamo stati costretti a trovare occupazioni alternative» racconta la ragazza. «Abbiamo fatto i biscotti e disegnato mondi impossibili, ci siamo fatti la maschera di bellezza ma anche piegato i panni puliti e liberato la lavastoviglie. Di solito per queste cose mi imbosco, ma con gli amici è divertente. Ci è pure venuto in mente di scrivere un libro su come stiamo vivendo noi ragazzi questo periodo di coronavirus. Ho già il titolo: Il 2020 visto dal basso». Pagine scritte? «Nessuna».
«Mamma mi ha messo in quarantena, non perché sono malata ma per paura che mi ammali» dice sconsolata Martina A., 15 anni. «Il massimo della vita in questi giorni è stato fare un giro delle farmacie per cercare le mascherine. Per il resto sto in casa». A fare? «Telefono». Solo telefono? «Praticamente sì: WhatsApp, Instagram e TikTok». È quest’ultimo il social network in più rapida diffusione tra i giovani italiani. Su TikTok preadolescenti e adolescenti caricano microclip dai 15 ai 60 secondi fatti di balletti, smorfie, canzoni. È la loro «piazza» collettiva sempre più affollata in mancanza di spazi fisici, un mondo di leggerezza in cui adesso è entrata giocoforza l’ansia da coronavirus. E più aumenta l’ansia, più si sdrammatizza. «Moriremo tuttiii!» urla @gabrielelevagnato nel suo video Come sopravvivere al coronavirus e tranquillizzare la propria fidanzata. «Solo io ho paura del coronavirus?» chiede ai follower @celestebutelli. Nelle risposte un po’ di fatalismo, un po’ di superficialità dovuta all’età, ma anche preoccupazione. «Dalla paura non dormo da tre giorni» dice qualcuno. «I miei vogliono portarmi dal medico perché ho i sintomi ma secondo me è solo influenza», «Ho l’ansia», «È la fine del mondo», «Voglio prenderlo almeno muoio», «Viviamo in fretta, non c’è più tempo», sono solo alcuni tra i tantissimi commenti. Altri ne approfittano per aumentare i loro follower. Si mostrano emaciati mentre indossano una mascherina, e scrivono: «Raga, ho il coronavirus, seguitemi per aggiornamenti». Su TikTok c’è un brano di musica elettronica diventato vero «must» per accompagnare i video a tema epidemia: Hey, It’s Corona time. Ma tra gli amici che si ritrovano in casa a fare balletti va forte la Macarena rivisitata: «Balla tu cuerpo Amuchina e quarantena, se tu metti una bella mascherina è cosa buena… eeeeh quarantena». Beata gioventù.
