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Germania in rosso

Germania in rosso

I conti che non tornano nel bilancio federale e che per l’approvazione hanno richiesto impietosi tagli di spesa. La «locomotiva d’Europa» è in crisi. E il problema più grave è il suo modello industriale che non funziona più. Nonostante questo, nel Continente e non solo, continua a voler imporre il proprio interesse.


Forse aveva ragione Winston Churchill: «Nessun popolo è più preciso dei tedeschi nella pianificazione, ma ugualmente nessun popolo può risultare maggiormente sconvolto quando i suoi piani falliscono». Subiscono una coazione a ripetere, quella dell’austerità che vogliono imporre a tutta l’Europa, per non fare i conti con il falli-mento del loro modello di sviluppo. I numeri stanno lì a dirlo. L’inflazione resta la più alta in Europa: 3,2 per cento con i beni di largo consumo ancora in aumento di cinque punti. Per i tedeschi l’inflazione è un incubo: i drammatici ricordi della Repubblica di Weimar pesa ancora. Perciò sperare che la Banca centrale europea abbandoni l’austerità sui tassi – nonostante una evidente traiettoria al ribasso dell’inflazione – è un’illusione. Christine Lagarde lo ha detto a chiare lettere: il quadro resta incerto. Isabel Schnabel, che siede nel board della Bce per conto di Bundesbank, ha confermato: fino a giugno di abbassare i tassi non se ne parla. Ancora una volta la Germania vuole usare l’area euro e lo fa cercando di imporre un patto di stabilità a suo esclusivo favore. Lo ha criticato persino Mario Monti, che ha scritto sul Corriere della Sera: «Non è all’altezza delle sfide che l’Europa deve affrontare». 1E suggerendo che sia dettato da una Germania «impantanata, con minore autorità morale, che a volte esporta instabilità o ricorre ad artifici contabili».

Il Bund, per dirne una (i titoli di Stato hanno toccato un tasso 2,7 per cento medio nell’ultimo mese), sta ai massimi di rendimento dal 2011; significa che la reputazione della Germania presso gli investitori non è più così cristallina. Lo conferma il nervosismo del ministro delle Finanze, il liberale ultra-rigorista Christian Linder che ha rischiato l’esercizio provvisorio perché il Bundestag non approvava il suo bilancio con conti taroccati. Si è poi salvato sul filo del rasoio con un accordo per tagli da 17 miliardi di euro. Ma è lo stesso Linder che all’Ecofin dei primi di settembre in Lussemburgo proclamava: «Se si vuole mantenere stabile l’euro e il mercato unico, se si vuole rimanere competitivi servono regole fiscali che stabilizzino le finanze pubbliche». E questo per annunciare il nuovo patto di stabilità in salsa teutonica su cui l’Italia, ma anche la Francia, si è messa di traverso, è pronta a porre il veto, perché come hanno ripetuto sia il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, sia il presidente del Consiglio Giorgia Meloni: «Non firmiamo patti che non possiamo rispettare».

Il fatto è che la Germania i suoi debiti li nasconde. A rivelare che sono stati truccati i conti è stata la Bundesrechnungshof, la Corte dei conti che ha sentenziato a fine agosto: «Il governo sta nascondendo la situazione reale del deficit e dell’indebitamento del Paese». Gli osservatori fanno tutti riferimento invece a una decisione della Corte costituzionale tedesca che ha stabilito – a metà novembre – essere illegale lo spostamento di 60 miliardi che la Germania aveva preso a debito per fronteggiare l’emergenza Covid sul fondo della transizione energetica. Secondo la legge tedesca i debiti contratti in emergenza non vanno conteg-giati nel debito pubblico, ma se si usano per altri scopi vanno fatti emergere. Da qui il buco ulteriore da 60 miliardi di euro. È però nulla rispetto alla contestazione della Corte dei conti che riguarda altro. Secondo i giudici contabili, in due anni Linder, per alimentare tre fondi di spesa pluriennali (110 miliardi per l’esercito con il cancelliere Scholz che continua a promettere aiuti aggiuntivi all’Ucraina se gli Stati Uniti dovessero diminuire i loro; 60 miliardi per il clima, 200 miliardi per la transizione energetica), ha creato «veicoli» finanziari esterni al bilancio statale per evitare che quelle spese emergessero nel deficit tedesco.

Stavolta anche da Bruxelles hanno risposto che «non è possibile per gli Stati membri stornare dal deficit qualsiasi spesa con mezzi come i fondi speciali». La Corte dei conti stima che il deficit reale della Germania dovrebbe essere conteggiato in 869 miliardi di euro. Ma le contraddizioni del governo di Olaf Scholz – il quale è al minimo di popolarità in un sondaggio della rete televisiva Ard e solo il 20 per cento dei tedeschi si dichiara soddisfatto della sua azione – non finiscono qua. Mentre insiste con la Bce per inasprire i tassi e drenare liquidità nel mercato è il primo a iniettare denaro con i sostegni energetici alle imprese: 200 miliardi di euro. Anche stavolta la ragione sta nei numeri. La Germania è in recessione: il Pil si contrarrà dello 0,4 per cento e non ha slancio per la ripresa in forza di una forte deindustrializzazione.

Il quotidiano di Amburgo Die Welt ha stimato che nella prima metà del 2023 in Germania hanno chiuso oltre 8.400 imprese: non succedeva da vent’anni. La Confindustria tedesca ha confermato che quasi un’azienda su due (il 40 per cento) ha spostato o sta spostando produzioni all’estero e l’indice Ifo ha stimato in netto peggioramento il «sentiment» sulle esportazioni. Il ministro dell’Economia, il verde Robert Habeck, vuole imporre un prezzo politico dell’energia e accetta di chiudere tutt’e due gli occhi sulle fonti fossili, ma accusa Linder di aver distrutto i conti pubblici. Ai maggiorenti del suo partito, la Spd, Scholz ha annunciato 17 miliardi di euro di tagli di spesa. A Berlino si respira aria pesante nei partiti, anche nell’opposizione. Angela Merkel si è dimessa dalla Fondazione Konrad Adenauer, i soliti bene informati dicono che si prepara a un’offensiva dentro la Cdu in vista di una più che probabile caduta anticipata di Scholz, lei al settimanale ha detto: «Esco dalla Fondazione per avere una vita ancora più libera». Per fare che cosa? Questo è il punto interrogativo perché la Germania in rosso, per dirla con Winston Churchill, «non è in grado d’improvvisare».

Lo dimostra la Volkswagen che voleva invadere la Cina con le sue auto, che ha spinto l’Europa verso l’auto elettrica e ora si trova invasa in casa da 1,8 milioni di vetture cinesi «a pila». Il ceo Thomas Schafer ha ammesso: «Siamo in un momento molto difficile». Annunciati 30 mila licenziamenti. Un sondaggio del quotidiano di settore Automobilwoche, che ha intervistato 2.500 addetti del comparto, rivela che per il 28 per cento la Volkswagen è certamente in crisi e un quarto degli intervistati la vede probabilmente in crisi. Il motivo? La Cina non compra. Ma neppure i tedeschi vanno in concessionaria. L’indice della fiducia dei consumatori è sceso a -28,1 punti. Secondo Rolf Buerkl, esperto di consumi dell’istituto Nim: «I prezzi elevati dei generi alimentari stanno indebolendo il potere d’acquisto delle famiglie tedesche: i consumi privati non saranno un pilastro dell’economia quest’anno». Soprattutto a Berlino est la povertà fa paura. Ebbe a dire uno dei più ascoltati economisti tedeschi, Heiner Flassbeck: «Il problema dell’Europa non è l’Italia, è la Germania che con salari reali troppo bassi e surplus commerciale alle stelle ammazza gli altri Stati. Con le politiche di austerità la Germania sta distruggendo l’Europa».

Dopo anni e anni di dumping commerciale fondato sulla formula energia dalla Russia a poco prezzo e pace sociale, violando ogni regola comunitaria, la Germania fa i conti col suo modello che frena o, peggio, frana. E ancora una volta vuole usare l’Unione come cosa sua. Lo fa invocando un Mes – il fondo salva-Stati – che potrebbe servire per le sue banche regionali; lo fa stringendo i vincoli di bilancio per indebolire gli altri; lo fa per continuare a fare concorrenza all’export perché non sa trasformare il suo modello economico. Per questo sul patto di stabilità la bagarre è massima, per questo Ursula von der Leyen, che Scholz vuole ricandidare al vertice della Commissione perché tedesca, dialoga con i cinesi invocando l’apertura del mercato a nome dell’Ue, ma nel solo interesse della Germania. Di questo ha parlato con Xi Jinping, presente anche il presidente del Parlamento Charles Michel, anche lui in scadenza di mandato come la baronessa. Perciò Berlino ha imposto alla presidenza della Bei – la banca degli investimenti – la ministra spagnola dell’Economia Nadia Calviño nonostante lei sia ultra-marxista e debba guidare il negoziato sul patto di stabilità. Berlino ha tagliato la strada al nostro ex responsabile dell’Economia Daniele Franco per acquisire il consenso spagnolo sul nuovo rigore. Berlino su quel fronte, dopo la vittoria elettorale di Geert Wilders in Olanda, è un po’ più sola. La risposta italiana potrebbe venire da un asse con Parigi. Non a caso Emmanuel Macron (come anticipato da Panorama alcune settimane fa) mette sul tavolo la candidatura di Mario Draghi. È un modo per dire a Berlino: les jeux ne sont pas faits! Restano da prendere alcune importanti decisioni…

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