Dalla Malesia al Vietnam e alle Filippine, dalla Thailandia all’Indonesia e alla Cambogia. I colossi mondiali della tecnologia (ma non solo in questo settore) spostano nel Sud-est le loro produzioni finora concentrate in Cina. I motivi? Costo del lavoro più contenuto e buona preparazione, maggiori prospettive di crescita e incentivi fiscali.
Le tigri si sono risvegliate. Nel Sud-est asiatico alcuni Paesi si stanno trasformandosi nelle nuove fabbriche del futuro, approfittando della rivalità tra Stati Uniti e Cina e dell’aumento dei costi del lavoro del Dragone. E pur avendo affrontato un 2023 non particolarmente brillante in termini di export, stanno ridisegnando il panorama produttivo del mondo, soprattutto nel campo delle nuove tecnologie. Investimenti imponenti arrivano dagli Stati Uniti e dall’Europa guidati dal «de-risking», una strategia che si propone di mitigare il rischio associato all’eccessiva dipendenza dalla Cina spostando altrove la produzione. E ulteriori investimenti arrivano dalla stessa Pechino, in modo da aggirare i dazi imposti all’export del gigante asiatico, nonché per sfruttare i costi di produzione più bassi. Secondo la società di consulenza Roland Berger, in Cina «la manodopera non è più così economica come in passato. Dal 2013, i salari manifatturieri cinesi sono raddoppiati raggiungendo una media di 8,27 dollari l’ora. Questo aumento è in netto contrasto con i salari orari del settore manifatturiero in Vietnam, Thailandia o Malesia che rimangono al di sotto dei 3 dollari. E i salari più bassi non sono l’unico vantaggio che la regione può vantare. Singapore sta guadagnando terreno nei servizi finanziari e nell’alta tecnologia».
Al tempo stesso, il Sud-est asiatico può attingere a un numero impressionante di lavoratori di età compresa tra i 25 e i 54 anni con un’istruzione a livello universitario. «Più che di tigri parlerei di potenze economiche ambiziose» precisa Paola Morselli, junior research fellow dell’Osservatorio Asia dell’Istituto Ispi. «Sono nazioni in rapida crescita che vogliono conquistare un ruolo di primo piano nei settori emergenti dell’economia mondiale. Da secoli hanno rapporti con la Cina, quasi tutti a oggi hanno buone relazioni con gli Stati Uniti e offrono agli investitori stranieri stabilità politica, in molti casi garantita da sistemi governativi con caratteristiche autoritarie, a causa di sistemi politici non propriamente democratici». E naturalmente ricchi incentivi fiscali. Prendiamo la Malesia. Nel 2023 il suo Prodotto interno lordo è aumentato del 3,7 per cento e da anni si è guadagnata un ruolo chiave nella catena del valore dei microchip, in particolare nella fase di assemblaggio. Il Paese con i suoi 33 milioni di abitanti è già il sesto esportatore mondiale di semiconduttori e confeziona il 23 per cento di tutti i microprocessori americani.
Nei mesi scorsi colossi del settore come l’americana Intel e la tedesca Infineon hanno annunciato investimenti in Malesia per 7 miliardi di dollari ciascuno. Mentre Nvidia, il principale produttore mondiale di processori che alimentano l’Intelligenza artificiale, collabora con il conglomerato locale Ytl per la realizzazione del più veloce supercomputer del mondo dedicato all’Ia. Anche Texas Instruments, Ericsson, Bosch e Lam Research si stanno espandendo nello Stato asiatico. Che però non si accontenta di essere un ingranaggio nella grande macchina globale dell’hi-tech: sa di essere vulnerabile se un’altra economia diventa competitiva nell’assemblaggio di microchip e quindi sta cercando di creare un tessuto di aziende locali in modo da non dipendere più dalle grandi multinazionali.
Anche il Vietnam sta diventando sempre di più un protagonista nel mondo dell’informatica. La Apple ha spostato nel Paese comunista la produzione dell’iPad e di recente vi ha allocato anche alcune delicate attività di progettazione, una decisione che ha suscitato un forte interesse nel settore. Per la casa di Cupertino il Vietnam si sta consolidando come un «hub» alternativo di produzione al di fuori della Cina. Ma è da tempo che Hanoi spinge per conquistare un ruolo importante nelle nuove tecnologie. Ha già una solida base industriale nel campo della telefonia e vuole crescere nei semiconduttori.
«Il Vietnam è considerato il perno dell’Indo-Pacifico e ciò apre una collaborazione crescente fra Europa e Vietnam» ha dichiarato il 26 luglio scorso il presidente Sergio Mattarella, annunciando la ratifica da parte del Parlamento italiano di un accordo fra l’Ue e il Paese asiatico. Nel 2023 il Vietnam (98 milioni di abitanti) ha messo a segno una crescita del Pil del 5 per cento, inferiore al target del 6,5 per cento che si era dato il governo. A causare questo risultato è stata la caduta delle esportazioni di smartphone. Ma nonostante ciò il Vietnam resta una delle nazioni a più alto tasso di crescita del mondo.
La Thailandia (69 milioni di abitanti) invece punta sulla mobilità del futuro. Alle spalle ha una forte tradizione manifatturiera di qualità nella componentistica elettronica, nei macchinari per la medicina, nella meccanica (tanto da aver attirato famosi produttori europei di motociclette come Ducati e Triumph). Ora scommette su veicoli elettrici e batterie. La casa automobilistica cinese Saic ha inaugurato una fabbrica di accumulatori nella provincia di Chonburi con una capacità produttiva di 50 mila unità all’anno. Bangkok calamita inoltre investimenti nell’informatica: l’Hp starebbe lavorando per spostare la produzione di milioni di «laptop» in Thailandia.
«Anche l’Indonesia guarda alle auto elettriche e alle batterie» precisa Morselli. «Grazie alle sue risorse minerarie, come nichel e cobalto, fondamentali per la produzione di accumulatori, il Paese sta cercando di diventare un polo di produzione, imponendo ai produttori stranieri di aprire raffinerie e impianti di lavorazione in loco». Nel 2023 il prodotto interno lordo dell’Indonesia, che conta ben 279 milioni di abitanti, è cresciuto del 5 per cento, in lieve rallentamento a causa dell’export in parziale frenata. Un’altra nazione del Sud-est asiatico da tenere d’occhio sono le Filippine, che hanno una forte presenza nei settori dell’elettronica e delle telecomunicazioni. Con una popolazione di 114 milioni, nel 2023 hanno visto il loro Pil salire del 5,6 per cento. Più indietro da un punto di vista tecnologico è la Cambogia, che comunque è oggi tra i leader mondiale del tessile e del calzaturiero e cresce a tassi superiori al 5 per cento annuo.
Tutte queste economie stanno modificando le catene di approvvigionamento globale. Si affiancano alle sorelle maggiori dell’Asean, l’associazione delle nazioni del Sud-est asiatico, come India, Giappone e Corea del Sud, offrendo costi più bassi e ottime opportunità di investimento. Non stupisce dunque che qualche mese fa la Confindustria abbia aperto una sede a Singapore, porta d’ingresso e punta di diamante dell’area. «Singapore si concentra su ricerca e innovazione, non avendo gli spazi per aprire grandi stabilimenti produttivi» spiega Morselli. «Grazie a una forza lavoro molto preparata e di alto livello può dedicarsi ai settori tecnologicamente più avanzati». Il Sud-est asiatico però, ammonisce Roland Berger, non sostituirà la Cina da un giorno all’altro come fabbrica del mondo. Perché ciò accada, le sue catene di approvvigionamento dovranno diventare più efficienti e integrate. Ma la strada è segnata e la lotta per contendersi la produzione mondiale è sempre più agguerrita.