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L’effetto contrario dei salvataggi

L’effetto contrario dei salvataggi

Uno studio scientifico rivela che quante più navi di ong sono in mare, tantomeno sicure risultano le traversate, aumentando i rischi di naufragi.


Ogni volta che nel dibattito politico e mediatico si torna a parlare di Ong, si ripresenta la comanda: le navi di soccorso aumentano le partenze o no? Sono un pull factor, un cosiddetto «fattore di attrazione», come sollevato più volte dall’Agenzia europea della Guardia di frontiera Frontex, oppure i migranti partono in egual misura anche in assenza di navi umanitarie? Il tema dovrebbe essere affrontato in termini scientifici e non ideologici come invece spesso succede.

Aiutano a sbrogliare la matassa Giovanni Mastrobuoni dell’Università di Torino e Claudio Deiana di quella di Cagliari, due economisti italiani che, insieme a Vikram Maheshri dell’ateneo di Houston, hanno realizzato uno studio presto pubblicato sull’American Economic Journal. Il titolo: Migrants at sea, unintended consequences of search and rescue operations, ovvero «Migranti in mare, conseguenze involontarie delle operazioni di ricerca e salvataggio». «I risultati del nostro lavoro indicano che in conseguenza della presenza di navi di soccorso (private o europee), aumentano le partenze sui gommoni» scrivono. Ci si riferisce ai famigerati gommoni di plastica made in China destinati a sgonfiarsi dopo poche miglia. Nonostante siano fino a 20 volte più pericolosi delle imbarcazioni a scafo rigido, offrono un vantaggio: sono molto più economici e il viaggio può costare anche un terzo rispetto ai 2.500 dollari richiesti dagli scafisti per mezzi più sicuri. Proprio questo cambio nella modalità degli attraversamenti ha un effetto indiretto sul totale delle partenze perché a fronte di prezzi più bassi, la domanda aumenta. E si allarga la platea di quanti tentano il viaggio della speranza verso l’Europa.

L’effetto indicato dai ricercatori è chiaramente visibile nell’agosto 2017. Quando l’allora ministro dell’Interno Marco Minniti introduce il codice di condotta per le Ong, molte delle navi di soccorso decidono di non aderire e si allontanano dalle coste libiche. Benché sia estate – quindi stagione di continui attraversamenti – le partenze crollano. Contemporaneamente, cambia la tipologia di imbarcazione perché i trafficanti, che sono uomini d’affari interessati a offrire un «buon servizio», sono costretti a optare per mezzi in grado di affrontare l’intera traversata e dunque più sicuri. Un effetto confermato dai dati della Guardia costiera che mostrano come fino al 2017 il gommone ha rappresentato fino al 70 per cento dei mezzi utilizzati mentre dall’anno dopo, quando ci sono poche Ong in mare e vengono sospese anche le missioni europee Frontex ed EunavFor Med, il gommone viene usato solo nel 54 per cento dei casi nel 2019, per poi scendere a quota 27 per cento nel 2020.

Non è un caso che i migranti partiti dalla Tunisia, dove non ci sono organizzazioni di assistenza, nonostante la maggiore vicinanza all’Italia non viaggino certo a bordo di gommoni ma solo su mezzi più strutturati e sicuri. «Minniti è stato attaccato per un codice giudicato non ricevibile e per aver accettato di fare accordi con la Libia» commenta Mastrobuoni. «Ma se guardiamo al numero delle vittime, è un fatto che siano diminuite proprio in concomitanza del calo delle partenze». Se nel 2017 i tentativi di partenza dalla Libia sono 141 mila (l’anno prima 201 mila), nel 2018 scendono a 45 mila. Calano anche i morti: dai 2.800 del 2017 si fermano a quota 1.300. Più navi di soccorso in mare dunque significa più partenze e più morti perché proprio in virtù di queste navi, i trafficanti possono permettersi di optare per mezzi fatiscenti e farli salpare persino in condizioni meteo avverse. In questo modo, l’effetto potenzialmente benefico che i mezzi di soccorso dovrebbe rappresentare si annulla.

È un risultato che, se da un lato conferma la teoria del pull factor avanzata da Frontex già nella «Risk Analisys» del 2017, dall’altro smentisce quanto sostenuto da Matteo Villa, ricercatore dell’Ispi e responsabile di uno studio che, ancorché «esplorativo», è diventato il riferimento di quanti ribadiscono che il «fattore di attrazione» non esiste. Secondo questo lavoro, il numero dei migranti partiti «senza Ong in mare» sarebbe addirittura maggiore, benché di poche unità, di quello dei migranti che salpano «con Ong al largo». Risultati che secondo diversi ricercatori italiani, tra cui proprio Deiana e Mastrobuoni, presentano però non pochi problemi di misurazione. «La prima criticità deriva dal fatto che non esiste un dato esatto di quanti migranti partono e quando» spiega Mastrobuoni: motivo per cui se un gommone dovesse partire quando la nave di soccorso si è già allontanata, si avrebbe una partenza che pur dipendendo dalla presenza di Ong in mare non sembra legata a questo. Un evento che il modello usato da Villa rischia di non «catturare», finendo così per sottostimare l’impatto di queste navi.

Tale approccio inoltre non permette di capire se i migranti partano a causa dell’arrivo della nave di soccorso o se questa è in mare perché si aspetta di intercettare i migranti. Uno scambio su Twitter tra i ricercatori rivela un particolare curioso: a un certo punto Villa ammette che «l’atteso “effetto pull” si trova quando il tempo è brutto, in particolare d’inverno, e le Ong sembrano fare la differenza tra zero e poche partenze, non quando partono tutti». È proprio quanto illustrato dallo studio di Mastrobuoni e Deiana. Ed è esattamente ciò che nel dibattito sul tema continua a essere ignorato, anche da buona parte di quanti, pur dichiarando di avere a cuore le vite dei migranti, definiscono ogni tentativo di leggere i dati come un modo per criminalizzare le navi umanitarie, quasi dimenticando che i numeri si traducono in vite.

L’attuale decreto sulle Ong messo a punto dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi potrebbe però confondere ancor di più le acque. «Il rischio» chiarisce Mastrobuoni «è che inavvertitamente finisca per causare altre vittime ma non perché l’assenza delle Ong, come dichiarato dalle stesse, provochi di per sé un aumento dei morti – semmai è il contrario. Il problema è che i gommoni che partono perché ci sono le navi di soccorso, una volta al largo potrebbero ritrovarsi scoperti se queste, obbligate allo sbarco dopo il primo soccorso, devono ripartire prima del previsto». Conclude lo studioso: «Non vi è politica peggiore delle vie di mezzo. O si dispiegano mezzi e risorse per salvare quante più persone, com’è accaduto con la missione Mare Nostrum, o si attuano politiche chiare in grado di disincentivare la rotta del Mediterraneo centrale cercando al contempo di lavorare su modalità legali di arrivo». Opzioni che per ora non sembrano all’orizzonte.

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