Avevamo mostrato in questa rubrica in aprile che non era un buon anno per il USD. I primi 9 mesi del 2025 mostrano la peggiore performance della valuta americana degli ultimi 35 anni: -10% per il dollaro trade weighted (rappresentato nel grafico del Financial Times che trovate qui sotto), -11% nei confronti della nostra moneta, -15% nei confronti della valuta più forte quest’anno, la corona svedese. In Banca Patrimoni Sella abbiamo appena terminato una lunga e dettagliata analisi sul biglietto verde e sul suo futuro e condividiamo con voi lettori quanto è emerso.

I cicli “completi” del dollaro (da un picco fino al picco successivo) sono tipicamente molto lunghi e dagli anni ‘70 sono stati soltanto 3 come ben vedete dal grafico di Nynety One che li misura basandosi sul dollaro trade weighted reale. Durano in media una ventina d’anni. La fase rialzista più lunga per il dollaro in termini di durata è quella attuale, quella invece che portò al maggior apprezzamento del USD risale agli anni ’80.
Vedete anche che ci sono 4 fattori che compaiono nel grafico e che rappresentano le “cause” dei movimenti del dollaro, determinano le sue inversioni di trend nella storia e soprattutto sono poi i driver che per lunghi anni alimentano i grandi movimenti di apprezzamento e deprezzamento del USD. Sono:
Ø La geopolitica e la geoeconomia
Ø Il differenziale tassi fra gli Stati Uniti e il resto del mondo
Ø I flussi di investimento stranieri verso gli Stati Uniti
Ø Le sottovalutazioni e le sopravvalutazioni del USD rispetto al suo valore “teorico”

Leggendo vari paper di ricerca e parlando con altri operatori di mercato abbiamo provato a dare un volto a questi 4 fattori, a capire se l’attuale fase di debolezza della valuta americana (iniziata a fine 2022 e che ha avuto una seconda ondata quest’anno) sia solo una “correzione” in un trend di forza del USD che dura dal 2011 o sia invece la nascita di un trend ribassista di lunga durata.
Differenza non esattamente banale oggi vista la presenza di assets denominati in dollari ai massimi di sempre all’interno di indici azionari (azioni americane che pesano per il 65% dell’indice Msci World All countries) e obbligazionari (40% di obbligazioni in dollari nel Bloomberg Barclays Global Aggregate, 50% di titoli di stato americani nell’indice JPM Core Government Bonds).
Ecco il sunto dell’esame dei 4 fattori:
1) Geopolitica e geoeconomia. Gli USA hanno iniziato a porsi in modo diverso nei riguardi del resto del mondo (relazioni con Cina ma anche con alleati storici), con un focus più “domestico” (made in USA), molto meno interessato ai problemi degli altri paesi (ritiro di molti aiuti internazionali), con più imposizione dei loro voleri (dazi), con istituzioni interne meno credibili (FED e Powell “attaccati”); quello che viene definito come “la fine dell’eccezionalismo americano”.Questo cambiamento non è di poco conto perché altera un tipo di relazione, durata 70 anni, che vedeva gli Stati Uniti in qualche modo “garanti” di certi valori occidentali, prestatori di ultima istanza, parte integrante di organismi internazionali democratici e di conseguenza detentori della valuta di riserva mondiale per eccellenza.
E’ altresì chiaro che l’economia americana, che resta forte e importante, deve oggi competere con realtà emergenti che contribuiscono in media ai 2/3 della crescita mondiale, con altri player ambiziosi quali la Cina o l’India e questo inevitabilmente eroderà le quote dominanti che il USD detiene oggi lato scambi, riserve valutarie, pagamenti swift, che Unicredit ci mostra nel suo grafico. Altrettanto chiaro come a oggi la traiettoria di deficit e debito pubblico americano siano fuori controllo, elemento del tutto nuovo. Un simile quadro ci porta a pensare che questo fattore sia a sfavore del dollaro nei prossimi anni.

2) Differenziale tassi fra gli Stati Uniti e il resto del mondo. Andiamo verso trimestri in cui il differenziale scenderà con la FED che taglierà i tassi e le altre banche centrali dei paesi sviluppati che staranno ferme o addirittura potrebbe aumentare i tassi (Giappone). Quindi questo elemento pro dollaro tenderà a ridursi con due tipi di conseguenze a nostro parere: un calo dell’appetibilità degli assets obbligazionari americani e un incentivo maggiore a fare hedging sul cambio per le esposizioni denominate in valuta americana (visto il costo che andrà riducendosi). Il fenomeno dell’hedging valutario appare in forte crescita come una recente ricerca sugli ETF di Deutsche Bank ci mostra. Gli inflows su ETF hedged sono in aumento quest’anno e hanno superato quelli su ETF unhedged, che di norma sono più elevati.

3) Flussi di investimento stranieri verso gli Stati Uniti. Il deficit di partite correnti americano, determinato da un saldo della bilancia commerciale negativo ma non solo, è da decenni bilanciato dai risparmi del resto del mondo che vengono investiti dagli stranieri sui mercati americani. Il grafico di J.P. Morgan ve lo mostra perfettamente. Questo fenomeno è spiegato dalle dimensioni dei mercati azionari e obbligazionari americani e dall’appeal che hanno grazie a rendimenti storici superiori.
Nell’ultimo decennio emissioni obbligazionarie enormi (statali ma anche corporate) e il dominio americano lato tecnologia / AI (effetto prezzo lato equity) hanno fatto accelerare questo fenomeno: oggi ci sono 30.000 mld di dollari di proprietà di investitori stranieri investiti sui mercati americani, un record assoluto.
La parte di mondo più ricca (Europa, Giappone, Middle East) ha prodotto nel 2024 circa 3.200 mld di Usd di risparmi; il 40% di questi sono andati negli USA per finanziare il loro bisogno di capitale che si aggira sui 1.300 mld. A oggi non si registrano cali, ma è evidente che tutti gli elementi che abbiamo ricordato al punto 1) non depongono a favore di una prosecuzione “come se nulla fosse” di questo fenomeno: una diversificazione maggiore degli investimenti fuori dagli Stati Uniti è nelle carte. Vanno monitorate attentamente a nostro parere le aste dei titoli di stato americani che potrebbero essere il primo segnale.

4) Sottovalutazioni e sopravvalutazioni del USD rispetto al suo valore “teorico”. I mercati eccedono spesso in un senso o nell’altro (chi ricorda che nel 2008 il cambio Eur/ Usd toccò il livello di 1.60? Una vera pacchia per i viaggi negli Stati Uniti e ai Caraibi) e oggi il dollaro americano è ancora sopravvalutato di un 10-15% secondo le classiche analisi basata su purchasing power parity o simili (si veda il grafico di Goldman Sachs). Questo ci dice che una perdita di valore ulteriore sarebbe appena normale. Quindi anche sotto questo aspetto la spinta è per un biglietto verde che perde terreno.

In conclusione crediamo che i 4 fattori siano già o stiano per spingere il dollaro verso un bear market storico che dovrebbe favorire in primis i mercati emergenti azionari, il debito emergente in valuta locale e l’oro che continua a macinare record su record.
