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Così la Cina si sta «mangiando» il mondo

Così la Cina si sta «mangiando» il mondo

Pesce catturato in tutti gli oceani. E l’accaparramento di minerali strategici come oro, uranio, cobalto. Il paese del dragone sta giocando una partita globale. Spesso al di là delle regole.


L’ultimo appetito del gigante asiatico è per una creatura microscopica. Il krill sarebbe il cibo primario di balene, pinguini e uccelli acquatici, ma da quando in Cina si è sparsa la voce che l’olio che se ne estrae ha proprietà benefiche (in realtà non sostenute da prove certe) anche i cittadini dell’ex Celeste Impero sentono la necessità di farne incetta. E la richiesta è così alta che la flotta organizzata per catturare il mini-crostaceo in Antartide ha rapidamente portato il Dragone a diventare il numero uno di questo commercio. In maggio si è varata a Guangzhou la più grande nave da pesca di krill al mondo, 120 metri, e in cantiere ce n’è in costruzione un’altra lunga addirittura 140.

L’episodio rivela un semplice business, ma apre una finestra su qualcosa di ben più grande e complesso: da anni è in atto un sistematico drenaggio delle risorse mondiali da parte di Pechino. E i suoi intenti sono ben dichiarati. Nel 2015 il piano strategico industriale «Made in China 2025» sosteneva che per conquistare la leadership globale, società statali e aziende private avrebbero dovuto continuare ad appropriarsi e ad accumulare risorse dal resto del pianeta, anche quelle di cui la Cina era già ricca.

Così è stato. Si sono sottoscritti contratti su contratti per acquisire quante più produzioni presenti e future di praticamente qualunque materia prima, o per inglobare direttamente le società che le estraevano. Ci sono stati accordi con Paesi in difficoltà in cambio di importanti infrastrutture, ma anche elargizioni di prestiti impossibili da ripagare in cambio di risorse o di asset strategici (la cosiddetta «trappola del debito»). Affari mischiati a potere geopolitico se non a neocolonialismo. E là dove non arrivano i patti, c’è comunque un grandissimo numero di immigrati che sfruttano la terra a modo loro. «Io vado in Africa spessissimo e mi chiedo: ma qui di africani ce ne sono?» racconta Andrea Margelletti, presidente del Centro studi internazionali (Cesi). «La presenza dei cinesi è immensa ovunque. Ci vanno per comprare terra e creare fattorie. Il costo del lavoro è infinitamente più basso. Senza considerare che ci portano i detenuti cinesi a scontare la pena come manodopera quasi gratuita».

Sono questi immigrati, anche clandestini, che attraverso contrabbando e mercato nero mercanteggiano risorse non loro. Come avviene in Myanmar con la giada, o in Zambia e Vietnam con il palissandro, un pregiato legname che impreziosisce le case della Cina-bene. Purtroppo ne è rimasto poco e per bon ton ecologico in patria è vietatissimo tagliarlo. Ma nelle foreste altrui, no. Come avviene con l’oro, scavato senza sosta ma illegalmente e avvelenando i corsi d’acqua in Nigeria e Ghana.

Non che il prezioso metallo manchi, alla Cina: ne è leader con circa il 12 per cento della produzione mondiale. Eppure negli ultimi sei mesi, ovvero da quando il Covid ha messo in ginocchio le economie di tutti i Paesi, ha realizzato numerose acquisizioni per entrarne ulteriormente in possesso. Quelle recentissime, in Canada, sono esemplari: la società Zijin Mining ha inglobato la Guyana Goldfields per 245 milioni di dollari e la Shandong Gold Mining ha comprato la Tmac Resources, che estrae oro dalle regioni artiche, per 165 milioni di dollari. Il premier Justin Trudeau ha subìto la rabbia delle opposizioni ma la crisi è troppo forte anche in Nordamerica per bloccare lo shopping di Pechino.

Il tema principale sono proprio i minerali. Perché la questione sta ancora più a monte delle discussioni sullo spionaggio del 5G, di TikTok e di WeChat: è che la Cina controlla i materiali necessari a far girare il mondo. A partire da quello digitale. È leader nella produzione di molti elementi essenziali alla costruzione di apparecchiature elettroniche e da cui trae un enorme vantaggio: ogni altro Paese ne dipende. Ciononostante, continua a farne scorta. «Il futuro della competizione economica globale sarà tecnologica, è chiaro» spiega ancora Margelletti. «E chi possiede questi minerali diventa il regolatore del mercato, dunque determina costi e plusvalenze. Un punto a cui la Cina è arrivata pianificando a lungo termine le sue mosse. D’altro canto quella leadership non ha l’ansia delle elezioni e può permetterselo. È in grado di allocare le risorse in modo assai più intelligente di una democrazia».

Il miglior esempio del vantaggio dato da queste sostanze sono le «terre rare», un gruppo di 17 elementi dai nomi oscuri (lantanio, cerio, praseodimio…) ma fondamentali per l’industria della difesa, dell’aerospazio, dell’energia «pulita» e molto altro. Per esempio: legando il samario al cobalto si ottengono magneti usati sugli aerei e nei missili, mentre l’erbio si utilizza nei raggi laser. In questo campo i leader indiscussi di mercato fino agli anni Ottanta erano gli Stati Uniti, ma oggi sono costretti a importare l’80 per cento del loro fabbisogno dalla Cina, la quale controlla al 95 per cento l’offerta mondiale. E pur di mantenere la sua supremazia va a prendere questi materiali fino in Groenlandia, una regione che, liberandosi dai ghiacci a causa del riscaldamento globale, disvela nuove frontiere all’industria mineraria. Ecco perché la scorsa estate il presidente americano Donald Trump propose di comprarsela, la Groenlandia, ricevendo uno stupefatto diniego dalla Danimarca che ne è legittima proprietaria.

I cinesi, più veloci, intanto avevano scelto un’altra via: una compagnia australiana controllata dalla Shenghe Resources (cioè dalla Repubblica popolare cinese) vi possiede Kvanefjeld, il secondo più grande giacimento al mondo di terre rare. È anche il sesto per quantità di uranio, di cui Pechino fa incetta: ne importa in modo crescente da Kazakistan, Uzbekistan, Canada, Niger e Australia. In Namibia (produttore dell’11 per cento dell’uranio mondiale) ha appena comprato a prezzo stracciato la società mineraria più grande (Rössing Uranium). Adesso lo scava anche in Arabia Saudita, in cambio – qualcuno osa ipotizzarlo – di aiuti tecnologici che consentirebbero a Mohamed Bin Salman di avere finalmente la sua bomba (gli Stati Uniti sarebbero contrari all’arricchimento arabo di metallo radioattivo, ma le ambizioni di «Mbs» di costruire una potenza nucleare in funzione anti-Iran sono troppo forti).

È un fatto che da quando il coronavirus ha colpito il mondo, abbassando i prezzi, in Cina è boom di importazioni di metalli industriali (ed esportazioni ai minimi). Quella di alluminio è salita del 490 per cento dallo scorso anno. Per il rame (di cui sono ricchi paesi come Cile e Perù) si è arrivati al record di 530 mila tonnellate in luglio. Per garantirselo insieme al cobalto (altro minerale che drena nel mondo), un grosso aiuto è arrivato dalle relazioni con la Repubblica democratica del Congo, dove in giugno i rappresentanti di 35 compagnie minerarie cinesi hanno annunciato la creazione di una «Unione» per interfacciarsi con il governo locale. Solo formalità: sono anni che la Cina ha messo le mani su metà del cobalto prodotto nello Stato africano (che poi importa all’80 per cento).

Società cinesi stanno rafforzando la loro presa anche sul litio e sui tre Paesi che insieme ne fanno il 90 per cento della produzione globale – Cile, Argentina e Australia. Loro producono, la Cina gestisce: oggi il 59 per cento del litio mondiale è sotto il suo controllo o influenza. In particolare l’Australia – nonostante le tensioni legate all’espansionismo cinese nel Pacifico – negli ultimi mesi sta cedendo grosse fette di mercato di vari minerali.

Compreso il vanàdio, usato principalmente in siderurgia per la produzione di acciai speciali ai quali impartisce durezza e resistenza. E compresi carbone e ferro, di cui l’Australia è grandissimo estrattore ma che poi vende al 90 per cento al potente «nemico». Per la grafite, ottimo conduttore elettrico dall’altissima temperatura di fusione, invece la Cina «si serve» in Mozambico, dove sorgono i più grandi giacimenti del mondo e dove Pechino ha stretto accordi con i tre maggior produttori.

I casi insomma sono moltissimi e talvolta si arricchiscono di aneddoti e strane coincidenze, come avviene in Costa d’Avorio. Il suo sottosuolo ricolmo di manganese è affidato alla Compagnie minière du Littoral. Proprietaria è da qualche anno la China National Geological & Mining Corp. di cui fidatissimo presidente del consiglio di amministrazione è stato monsieur Philippe Légré. Questo fino a due settimane fa, quando ha lasciato per ricoprire un altro incarico: è il nuovo ministro degli Affari marittimi. L’uomo giusto, al posto giusto, nel momento giusto, considerando che l’interesse precipuo di Pechino sarebbe scalzare definitivamente l’influenza francese e puntellare il mare, sia come asset logistico per la Nuova Via della seta africana, sia per il pesce, l’altro grande tema che interessa al vorace Dragone. Perché se grazie alla sua immensa strategia le ambizioni cinesi sul reperimento di risorse dall’intero pianeta vanno a gonfie vele, approvvigionarsi dei prodotti del mare è più complesso. E può sfiorare la pirateria.

Si è letto sui giornali: in luglio 240 pescherecci cinesi operavano lungo le acque territoriali dell’Ecuador, appena sotto le isole Galapagos e a ridosso delle sue aree marine protette. Ebbene, nonostante il biasimo internazionale, in poche settimane il numero delle imbarcazioni è andato aumentando e oggi arriva a 360, la maggior parte delle quali – riporta Reuters – può incamerare fino a mille tonnellate di pesce. È dal 2017 che nei mesi estivi la flotta cinese prende questa rotta per cacciare soprattutto lo squalo martello smerlato, una specie a rischio di estinzione che finisce in centinaia di esemplari sui banchi dei tristemente famosi mercati cinesi. Le sue pinne, se degustate in zuppa, sarebbero una vera prelibatezza.

Da sola Pechino copre il 40 per cento delle attività globali di «Distant water fishing», ovvero pesca in acque lontane dal mare di appartenenza. In zone come l’Africa occidentale arrivano al 75 per cento. Si è calcolato che il Dragone si accaparri 17 milioni di tonnellate di pescato ogni anno con la più grande flotta di pescherecci al mondo. Forse 300 mila barche e quasi otto milioni di addetti. Ma potrebbero essere di più: accanto a quelle tracciate ci sarebbero altre barche con i transponder spenti, chiamate dagli osservatori «Flotta oscura». Ne parla anche il report Global Fishing Watch, pubblicato a fine luglio dal giornale Science Advances, dove si riporta che nelle acque territoriali della Corea del Nord dal 2017 (cioè dall’embargo internazionale sulla pesca) al 2019 le barche cinesi si sono affollate per pescare illegalmente calamari (160 mila tonnellate, per un valore di 560 milioni di dollari). I satelliti ne hanno individuate 900 nel 2017 e più di 700 negli anni successivi. Un bailamme di imbarcazioni cinesi. I pescatori nordcoreani a loro volta sarebbero stati costretti a cercare cibo e fortuna verso i mari russi.

Negli ultimi anni sono stati contati quasi 600 relitti lungo le coste del Giappone: a bordo, talvolta, i corpi in decomposizione di uomini che si erano spinti sui loro «legni» in acque decisamente troppo aperte. Poi le correnti, le tempeste, chissà. Una tale quantità di morti che, sempre secondo il report, ha creato veri e propri «villaggi di vedove» sulla costa orientale nordcoreana.

«Per forza i cinesi si spingono a cercare pesce in ogni dove: un miliardo e mezzo di persone devono mangiare, sennò non le controlli» commenta il presidente del Cesi. «E trattandosi di una potenza in crescita, sono cresciute anche le richieste del suo popolo. È il problema principale del potere: la quotidianità dei propri cittadini. Per questo sono così aggressivi nel Mar cinese: perché lì c’è il pesce». Ma anche per questo pochi giorni fa il presidente Xi Jinping ha definito «vergognosa» la quantità di cibo sprecata, richiamando a comportamenti più morigerati e magari a rinunciare a un piatto quando si va al ristorante.

Questo non evita che nel Mar cinese meridionale il confronto geostrategico tra Stati Uniti e Cina raggiunga livelli di guardia. Pechino qui schiera pescherecci anche militarizzati, la consistente milizia navale, che creare azioni di disturbo e piccoli incidenti, come una guerriglia in acque disputatissime. Politica e pesce, sempre il pesce. Si va a prenderlo fino in Sudamerica e in Africa.

Flotte enormi – anche con «super pescherecci», simili a cargo e capaci di incamerare l’equivalente di 13 aerei jumbo – si posizionano lungo la linea di demarcazione delle acque territoriali altrui, oppure dentro, grazie a concessioni ottenute a prezzi ridicoli, e calano infinite reti. Sulla costa i piccoli pescatori locali, abituati da secoli a usare canoe artigianali, ormai «prendono» poco e le proteste diventano sempre più forti. In Senegal, Mauritania, Ghana, Liberia e Costa d’Avorio – testimoniano i giornali locali – negli ultimi sei mesi la presenza dei cinesi è diventata insostenibile, anche perché coincide con la devastante crisi economica aggravata dal coronavirus.

In Argentina l’aggressività di Pechino è combattuta con più veemenza e in casi eclatanti la Guardia costiera di Buenos Aires ha sparato (i video sono su YouTube). Proprio dall’Argentina tornavano i due pescherecci sequestrati in Indonesia poche settimane fa. Cinque persone sono state arrestate per tratta di esseri umani: marinai indonesiani imbarcati come forza lavoro erano tenuti in condizione di semi schiavitù dai cinesi. Si è saputo di abusi sessuali. Secondo le testimonianze tre uomini sono stati gettati nell’oceano, mentre il cadavere di un ventenne era chiuso nel freezer della barca insieme ai calamari congelati. Piccola nota grottesca in un mondo drammaticamente caldo.

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