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A chi conviene il tetto sull’uso del contante

A chi conviene il tetto sull’uso del contante

parte 3: il business dell’Antiriciclaggio

Come abbiamo già visto, l’Europa chiede all’Italia e agli altri stati membri di adottare politiche di contrasto al riciclaggio di denaro sporco. Tuttavia, la normativa europea non ci impone affatto di limitare l’uso del contante.

Questo equivoco viene alimentato anche dal fatto che in Italia le disposizioni di diritto interno che impongono tali limiti sono collocate all’interno delle leggi approvate per recepire le direttive europee antiriciclaggio.


In Europa però la tesi secondo cui l’uso del contante dovrebbe essere associato ad evasione fiscale e traffici illeciti è tutt’altro che pacifica e condivisa: di trenta paesi europei (includendo anche Regno Unito, Islanda e Norvegia, che non sono parte dell’Unione) solo 12 hanno imposto limiti all’uso del contante, e in molti di questi paesi le soglie sono molto più generose rispetto a quelle italiane.

E soprattutto, tra i molti paesi che hanno scelto di non porre alcun tipo di limitazione troviamo: Germania, Irlanda, Islanda, Finlandia, Olanda, Austria e Regno Unito. Quindi non proprio paesi con economie da terzo mondo, ma importanti potenze finanziarie della vecchia Europa.

Le istituzioni europee,comunque non prendono sottogamba il tema del riciclaggio di denaro frutto di evasione o di traffici illegali, o destinato ad alimentare organizzazioni terroristiche e criminali, al contrario: nel tempo, già a partire dagli anni ’90, sono state adottate diverse direttive finalizzate a creare uno standard comune in Europa di regole penetranti ed efficaci per contrastare il riciclaggio di denaro e imporre agli stati membri di dotarsi di leggi interne che non si ponessero al di sotto dello standard europeo così stabilito. Inoltre, di seguito alla sua istituzione in seno all’OCSE, il GAFI (Gruppo di Azione Finanziaria Internazionale) non ha mai smesso di sfornare regolarmente raccomandazioni ai paesi membri per l’adozione di norme e misure sempre più incisive.

Oggi la normativa europea è dato dalla cosiddetta V direttiva antiriciclaggio (cioè la Dir. 2018/843 del Parlamento europeo e del Consiglio). Essa è la norma fondamentale antiriciclaggio europea, ma non impone affatto agli stati membri di stabilire soglie o di restrizioni quantitative nell’uso dei contanti.

Le disposizioni che essa contiene per lo più spingono nella direzione di creare sistemi di monitoraggio, di verifica preventiva e di compliance, ma anche di controllo a posteriori. Quello che si pone a carico degli stati membri è l’onere di introdurre disposizioni che consentano l’identificazione e la segnalazione di operazioni sospette, da sottoporre ad un vaglio più accurato, la responsabilizzazione di tutti quei soggetti (dalle banche, agli intermediari finanziari, ai professionisti in ambito legale e contabile) che potrebbero venire più facilmente a conoscenza di operazioni di riciclaggio, e così via. Nessuna di queste norme, però, fissa un limite europeo all’uso del contante e tantomeno incoraggia gli stati membri ad imporne uno.

Il raffronto tra la normativa italiana e quella europea suscita diverse riflessioni interessanti.

Il D.Lgs. 231/2007 è la legge fondamentale antiriciclaggio in Italia, modificata ed aggiornata negli anni per recepire le disposizioni europee e ricalca anche nella struttura, le direttive europee.

Esiste però nella legge un titolo denominato “misure ulteriori” in cui sono state infilate, agli art. 49 e 50, il divieto di operazioni in contanti oltre gli importi previsti e i divieti sui conti, libretti e titoli al portatore: queste disposizioni non hanno alcun omologo o disposizioni corrispondenti nelle direttive europee.

Quella di stabilire un limite alle operazioni in contanti, quindi, è il frutto di una scelta, volontaria e consapevole, del legislatore italiano, che tra a più riprese in questo campo si è dimostrato non solo solerte ma anzi, si direbbe, persino più realista del re.

Ad esempio, la maggior parte delle novità adottate in quella che è poi divenuta la V direttiva europea antiriciclaggio, entrata in vigore solo nel 2018, in Italia erano state approvate ed incluse nel D.Lgs. 231/2007, con grande anticipo. Addirittura, già l’anno precedente, con il D.Lgs. 90/2017.

Ora, considerato che nella cosiddetta Eurozona, le politiche monetarie sono di stretta competenza delle istituzioni europee, come ha ricordato la BCE nella sua bacchettata all’Italia sul programma Cashback, perché mai l’Europa non ha mai stabilito limiti all’uso del contante, se è vero che l’uso del contante è così pernicioso?

Forse perché le grandi operazioni di elusione fiscale, che vengono realizzate alla luce del sole dai giganti del web, e fanno sparire dai radar del fisco delle principali economie europee centinaia di miliardi ogni anno, in realtà non passano affatto attraverso valigette di contanti, ma attraverso ordini di trasferimento per via bancaria, che più tracciati non si può?

E lo stesso vale per tutti i grandi traffici criminali: l’era degli spalloni che attraversano i confini con il doppiofondo nel bagagliaio zeppo di banconote ormai è preistoria.

Le tecniche di lavaggio del denaro sporco oggi sono ben altre. Passano da sofisticati schemi fatti di società e transazioni fittizie, false fatturazioni, frodi carosello, sistemi bancari di paesi compiacenti, in cui di solito, i flussi finanziari, almeno all’apparenza, sono tutti palesi e tracciati.

Pensare di debellare questo tipo di traffici imponendo limiti all’uso dei contanti è un po’ come sperare di contrastare l’approvvigionamento di armi delle organizzazioni criminali limitando il rilascio dei porti d’armi: servirà forse ad impedire che qualche cittadino si spari sul piede o colpisca involontariamente il vicino di casa perché non sa maneggiare una pistola, ma si può star certi che questo tipo di politica non impedirà ad una cosca di procurarsi tutta l’artiglieria che le occorre per gestire il suo losco business.

Allo stesso modo, le limitazioni all’uso del contante possono rendere difficoltoso per qualche esercente di sottrarre al fisco qualche decina di migliaia di euro, messi insieme senza aver battuto tutti gli scontrini che doveva, ma d’altro canto creerà un mucchio di problemi anche alla nonnina abituata ad accumulare (più che legittimamente) i risparmi della pensione sotto il materasso.

Ma allora, a chi conviene davvero lo sbarramento ossessivo all’uso del contante?

Ovviamente, ed in primo luogo, agli operatori delle piattaforme di pagamento. Banche, circuiti di carte di credito o di debito, insomma, tutti gli operatori che hanno il totale controllo del mercato dei di mezzi di pagamento digitale e dei servizi bancari.

In un sistema in cui per eseguire un qualsiasi pagamento non c’è alternativa che quella di passare attraverso i servizi di questi operatori, ogni singola operazione frutterà ineluttabilmente una commissione.

Il che genera un giro d’affari colossale, con costi che, anche se inizialmente sostenuti dagli esercenti che ricevono i pagamenti, finiranno per essere ribaltati a carico di consumatori e utenti finali: chiunque immetterà sul mercato una qualunque merce o servizio, ne fisserà il prezzo ricaricando i costi finanziari delle commissioni.

Un altro ambito che trae linfa dall’imposizione di regole, obblighi e limitazioni giustificati dalla finalità di contrastare l’uso del contante, è costituito dal settore dei servizi legati agli adempimenti, alla compliance, al rispetto degli obblighi e alla formazione sulla normativa antiriciclaggio.

La normativa nazionale di recepimento delle direttive europee, e cioè il D.Lgs. 231/2007 cui si è già fatto cenno, infatti, al di là del tetto alle operazioni in contanti, impone una quantità di obblighi a carico di una platea molto ampia di operatori. Questa platea è definita all’art. 3 della legge e non si limita a operatori cui sarebbe naturale pensare (come banche o intermediari finanziari di vario genere) ma anche altri soggetti che non svolgono attività di natura finanziaria. Parliamo di notai, avvocati, commercialisti, revisori legali, ma anche di figure come antiquari, mercanti d’arte, mediatori immobiliari, mediatori civili, agenzie di recupero crediti, etc.

Ebbene, tutti questi soggetti hanno una quantità di obblighi che probabilmente molti di essi neppure lontanamente sospettano di avere, tutti dettagliatamente stabiliti dalla legge: dall’obbligo di adeguata verifica della clientela (che molti conoscono con l’acronimo KYC, know your client), agli obblighi di conservazione dei dati e dei documenti necessari a tale verifica; ed inoltre, obblighi di segnalazione agli organismi di vigilanza, di astensione dal compiere determinate operazioni, ed infine, obblighi di comunicazione.

Un primo punto è che la violazione di ognuno di questi obblighi comporta sanzioni pecuniarie molto salate, che possono arrivare anche a 50 mila euro in caso di reiterazione, o nel caso di omessa segnalazione di operazioni sospette, si parte da una sanzione minima di “soli” 3.000 euro, per arrivare ad un massimo di 300 mila euro, in caso di violazioni ripetute, e al doppio di questo importo (e quindi 600 mila euro), se la violazione è stata commessa per conseguire significativi vantaggi economici.

Ora, proprio gli obblighi di segnalazione imposti dalla normativa antiriciclaggio (la cui violazione comporta le sanzioni più salate), fin dal principio hanno posto una quantità di problemi interpretativi.

Innanzitutto, perché per determinate categorie, come avvocati e commercialisti, ordinariamente vincolate al segreto professionale, e non è sempre chiaro il limite che separa tali obblighi contrapposti, ma anche e soprattutto, perché per il cliente che si rivolge a tali figure professionali, il fatto di non poter fare affidamento sulla confidenzialità del professionista (tenuto a segnalare operazioni sospette), può determinare una grave violazione del diritto di difesa.

Ma non è solo questo. Stabilire se un’operazione è o non è da considerare sospetta (e quindi, se scatta o non scatta l’obbligo di segnalazione), è una vera sfida da un milione di dollari.

L’art. 35 del D.Lgs. 231/2007, che reca indicazioni su cosa debba intendersi per operazione sospetta, è una norma fumosa, che non offre una definizione oggettiva, ma rinvia a quelli che vengono detti “indicatori di anomalia”, contenuti in vari decreti e aggiornati periodicamente dall’Unità di Informazione Finanziaria presso la Banca d’Italia.

Si tratta di un vasto campionario di casistiche, alcune delle quali particolarmente vaghe. Ad esempio, secondo gli indicatori destinati anche a categorie diverse dagli intermediari finanziari, un’operazione meriterebbe di essere segnalata quando “Il cliente mostra un’inusuale familiarità con i presidi previsti dalla normativa in tema di adeguata verifica della clientela e di rilevazione di segnalazione di operazioni sospette, ovvero pone ripetuti quesiti in ordine alle modalità di applicazione di tali presidi“.

Un obbligo di questo genere, cioè, non grava solo su una banca, un notaio o un avvocato, ma anche su un antiquario o su un mediatore immobiliare.

È ragionevole pensare che siano molti gli operatori di alcune delle categorie che la legge indica come sottoposte agli obblighi antiriciclaggio, non siano affatto consapevoli di essere soggetti a obblighi così stringenti e complessi e men che meno del rischio di subire sanzioni salatissime, a cui sono esposti.

Pensate seriamente che i commercianti di anticaglie che al fine settimana espongono le loro mercanzie sul Naviglio, al mercatino di Sinigallia, sappiano di dover identificare i clienti conservare copia dei loro documenti, tenere registri, fare caso a comportamenti dei clienti e abbia obblighi di segnalazione? O che abbia idea di dover studiare un papiro infinito, con tutti gli indicatori di anomalia, cercare di capirci qualche cosa, e farsi finalmente un’idea di cosa possa essere definita “operazione sospetta” da segnalare agli organi di vigilanza, pena l’applicazione di sanzioni pesantissime?

Sulla carta, se un operatore di quelli che rientrano nell’elenco dell’art. 3 del D.Lgs. 231/2007, dovesse omettere di inoltrare segnalazioni su determinati comportamenti, perché semplicemente non coglie la natura sospetta di una determinata operazione, potrebbe vedersi contestate violazioni e quindi irrogate sanzioni per centinaia di migliaia di euro.

In altre parole, abbiamo un corpo normativo, tecnicamente sofisticato e complicato, che scarica la responsabilità dei controlli su una quantità di operatori privati. E il problema è che alcune categorie di tali operatori sono potenzialmente inconsapevoli e sprovviste delle necessarie competenze.

Una delle conseguenze è che si sono venute a creare le condizioni per l’innesco di una potenziale bomba: abbiamo un impianto di norme irrealistiche e straordinariamente severe sul piano sanzionatorio, che per effetto dello scarico di responsabilità sui privati, rischiano di restare inattuate sul piano pratico.

E questa situazione rischia di lievitare fino al momento in cui, magari sull’impulso della necessità di andare a battere cassa, a qualcuno verrà in mente di fare scattare controlli a tappeto, e ad inondare di sanzioni le migliaia di imprese e di studi professionali che sarebbero soggette a questi obblighi di vigilanza.

Per di più, come si è detto, è palpabile che molte di queste categorie di operatori non hanno colto (e forse non sono state poste nella condizione di cogliere) l’impellenza della situazione, la complessità degli adempimenti e la gravità delle conseguenze.

In queste condizioni non c’è dubbio che l’unico argine sia costituito dal ricorso al supporto di figure di professionisti altamente competenti in questa specifica, quanto complessa materia.

Questo, ovviamente, si traduce in un’opportunità per tutti quei consulenti che se ne occupano: avvocati, commercialisti, molti ex ufficiali e sottufficiali della Guardia di Finanza, sono molto attivi nell’erogazione sia di servizi di consulenza ed assistenza, sia nel campo della formazione.

Per cogliere la vivacità dell’offerta di servizi in questo campo, basta una ricerca sui motori di ricerca. Ma si pensi anche che in Italia si svolge annualmente il Salone Antiriciclaggio. Ossia, un evento di ispirazione fieristica, con workshop e convegni di formazione, per promuovere questo tipo di business, favorire l’aggregazione e lo scambio di competenze e di tecniche tra operatori.

Concludendo, l’accanimento contro l’uso del contante, sarà anche dettato dalle migliori intenzioni, ma sul piano pratico è lecito dubitare che le limitazioni imposte, a fronte dei disagi e dell’impatto sui diritti di privati cittadini e piccoli operatori economici, generino l’effetto di contrastare fenomeni di evasione fiscale di ampia portata o di impedire flussi finanziari correlati alle grandi operazioni criminali.

E tutto questo, al prezzo di un elevato rischio di violazioni della sfera di riservatezza degli individui, tutelata da norme fondamentali del diritto europeo.

Viceversa, è incontestabile che tra le ricadute pratiche della crociata al contante si abbiano un rilevante incremento di ritorni finanziari per banche, circuiti di carte di credito, ed in generale, operatori di piattaforme di pagamento, e la necessità per moltissimi operatori di doversi affidare al supporto di professionisti super specializzati, per sopravvivere alla mole di adempimenti ed obblighi e fare fronte alle conseguenze che discendono dal complesso sistema dell’antiriciclaggio.

Viene da dire, insomma che, forse per capire la vera finalità di queste misure è più che mai azzeccato il motto “follow the money”.

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