Nel nostro Paese le cause collettive sono difficili da promuovere, costose e con risarcimenti molto limitati. A differenza di quello che avviene negli Stati Uniti dove questa via giudiziaria è molto utilizzata. Ecco i casi più eclatanti.
Si fa presto a dire «class action». Il caso Dieselgate Volkswagen ha rilanciato il tema delle azioni legali intraprese da gruppi di consumatori vittime di soprusi, raggiri o disservizi. Queste cause collettive, nate negli Stati Uniti, sono state regolamentate anche in Italia. Siamo però lontani dalle cifre di risarcimento americane che hanno ispirato film famosi come Erin Brockovich con Julia Roberts, basato su una vicenda realmente accaduta. La protagonista, una segretaria precaria di uno studio legale di Los Angeles, riesce a vincere una causa collettiva da 333 milioni di dollari per 260 querelanti (a lei andrà un assegno da due milioni), contro il colosso Pacific Gas and Electric Company, condannato per aver contaminato le falde acquifere di una cittadina della California, provocando tumori ai cittadini.
Un’altra causa che ha fatto storia è stata quella contro le multinazionali del tabacco che hanno dovuto sborsare 4,4 miliardi di dollari per soddisfare le richieste di migliaia di fumatori danneggiati dalle sigarette. Negli Stati Uniti paga anche lo Stato. Il ministero degli Interni, accusato di aver gestito male i fondi destinati alle tribù indiane, ha chiuso la partita versando 3,4 miliardi di dollari. Le alte percentuali sul risarcimento, hanno trasformato la class action negli Stati Uniti in una vera industria. Secondo un sondaggio di Carlton Fields su oltre mille società, la spesa per la difesa da cause collettive è arrivata nel 2023 a 4 miliardi di dollari (nel 2022 era di 3,64 miliardi), il 14,6 per cento di quanto sostiene un’azienda per problemi legali. Si stima che nel 2024 crescerà del 6,8 per cento. In Italia le cose vanno diversamente, non ci sono risarcimenti milionari e il consumatore non è sufficientemente tutelato. Tant’è che sono soprattutto le associazioni dei consumatori ad attivare le cause collettive. Difficilmente un singolo legale si avventura in cause di questo tipo. Marco Ramadori, avvocato membro del collegio di presidenza del Codacons, specializzato in class action, definisce una «truffa» la legge italiana in materia.
E cita l’esempio della causa, attivata dal Codacons, contro Voden medical instruments, la prima sentenza di accoglimento nel 2013 da parte di una Corte d’appello nella storia della class action in Italia. «Dopo un lungo iter, tra primo grado, appello e Cassazione, l’azienda è stata condannata a pagare a chi aveva sollevato il caso solo 10 euro, cioè il costo del test autodiagnostico per l’influenza suina». Nulla a che vedere con gli Stati Uniti, dove «la class action nasce per difendere i consumatori da quei piccoli danni causati da grandi imprese, sulle quali nessun avvocato si cimenterebbe perché costose e rischiose. Ecco quindi il senso di questa azione giudiziaria».
Per l’esperto, invece, da noi il meccanismo non funziona. «Manca il danno punitivo e così al massimo si ha la restituzione dei 10 euro della Voden. Inoltre, mentre negli Stati Uniti la class action coinvolge, automaticamente, tutti coloro che subiscono quel particolare danno, in Italia chi vuole far parte dell’azione collettiva lo deve comunicare entro un determinato termine. Ma come fa a sapere che c’è una causa avviata? Ecco perché è una legge truffa». Una conferma di questa situazione viene anche dall’esito del Dieselgate Volkswagen nel nostro Paese. La class action promossa dall’organizzazione Altroconsumo si è conclusa con il risarcimento a oltre 60 mila proprietari di auto Vw, acquistate tra il 2009 e il 2015 e dotate di motori turbodiesel EA189, per un totale di 50 milioni di euro. La somma, riconosciuta dopo nove anni, va da 1.100 euro per ciascun veicolo nuovo acquistato e non rivenduto prima del 26 settembre del 2015, a 550 euro per le auto dismesse prima della data in cui è emerso lo scandalo. Il Tribunale di Venezia nel 2021 aveva condannato il colosso automobilistico a pagare fino a 200 milioni di euro, ma Volkswagen aveva fatto ricorso.
Talvolta l’iniziativa legale collettiva più che avviare un vero procedimento giudiziale, rappresenta un tentativo di riconciliazione. Questo il caso dell’istanza presentata da 49 dipendenti dei Musei Vaticani, indirizzata al Governatorato della città-Stato, che lamentano una serie di condizioni di lavoro, «lesive della dignità e della salute» come un solo giorno di permesso per la nascita dei figli, l’assenza di fasce orarie per le visite fiscali, la retribuzione del lavoro straordinario e le sale senza climatizzazione. Un’altra causa collettiva contro una casa automobilistica è stata lanciata dal Codacons contro la Citroën per la campagna di richiamo delle auto C3 e DS3 per i difetti all’airbag. Più di 600 mila le vetture richiamate nel mondo. Migliaia di automobilisti italiani hanno ricevuto la comunicazione di sospendere l’uso delle auto coinvolte e di rivolgersi alle officine autorizzate per la riparazione. «Peccato che per i pezzi di ricambio occorra aspettare mesi, come stanno denunciando i cittadini che devono affrontare enormi disagi, costretti a rinunciare alle loro vetture e a sostenere spese per mezzi di trasporto alternativi» spiega Ramadori.
Iter tormentato e dall’esito incerto è quello dell’iniziativa legale intentata sempre dal Codacons contro il Comune di Roma per le buche stradali. Nel 2019 il Tribunale di Roma ha rigettato la causa e così l’associazione dei consumatori si è rivolta al Tar del Lazio che ha ordinato al Campidoglio di «migliorare la sicurezza stradale». «A oggi non sappiamo se il Comune stia facendo qualcosa per risolvere il problema delle buche» continua Ramadori. Invece la class action per fermare l’Ilva, promossa da 10 cittadini aderenti all’associazione Genitori Tarantini e da un bambino di 11 anni affetto da una rara mutazione genetica, è arrivata addirittura alla Corte di Giustizia europea che si esprimerà il 25 giugno, mentre ci sarà un’azione collettiva in seguito all’ordinanza della Corte di Cassazione sugli autovelox che, per contestare la velocità, devono essere omologati e non solo approvati.
La disciplina delle azioni collettive non ha avuto grande sviluppo nel nostro ordinamento. Nel periodo 2021-2022 sono state introdotte solo otto azioni giudiziarie, di cui due dichiarate inammissibili e una prescritta. Il presidente dell’associazione Class Action Italia, Decio Rinaldi, sottolinea i motivi che scoraggiano. «La nomina da parte del giudice di un rappresentante comune, che deve individuare gli aderenti alla causa collettiva e verificarne i requisiti, può prolungare di molto la procedura. Inoltre, la nostra class action contro la promozione telefonica di un’installazione gratuita, come diceva la pubblicità, del purificatore d’acqua, si è risolta con un nulla di fatto. La causa è stata ammessa ma non siamo andati avanti perché la società non aveva i soldi per il risarcimento».