Da seconda manifattura d’Europa a outlet il passo è breve e disastroso. L’Italia è in svendita e l’anestesia produttiva e di consumi dovuta al virus cinese e l’attesa messianica dei soldi del Recovery fund fiaccano l’economia. Col rischio di rendere inefficace il rimbalzo, se ci sarà, quando usciremo dalla pandemia. Per ora bisogna misurarsi con un Pil sprofondato a meno 10,4 per cento e con una strage di aziende. L’ultima stima parla di 390 mila imprese chiuse che non riapriranno.
L’allarme lo ha dato Mario Draghi. L’ex presidente della Bce evocato come salvatore della patria nella sua relazione al G30 è stato chiarissimo: «La situazione è peggiore di quel che sembra, soprattutto per le piccole e medie imprese e le autorità devono agire immediatamente». Che cosa chiede Draghi? Che il debito pubblico assorba di fatto il debito delle imprese, che si lavori a ricapitalizzare il sistema imprenditoriale. Strano che mentre arriva questo segnale di pericolo le nuove regole europee bancarie dicano che se vai in rosso sei già in pre-fallimento.
L’Italia che ha fondato dal 1948 a oggi il suo protagonismo economico sul «quarto capitalismo» – delle piccole e medie imprese poco capitalizzate, ma molto dinamiche, quelle dove conta l’impronta di chi ci lavora, quelle capaci di essere flessibili e d’inventarsi il mercato – è dominata da un grande cartello listato a lutto: vendesi. La lunga corsa alla spoliazione è iniziata con la stagione delle privatizzazioni: si è smantellato il patrimonio dell’industria di Stato nella rincorsa dell’euro. Ma ora siamo ai saldi di fine stagione.
L’offensiva al patrimonio Italia si sviluppa su tre fronti: quello turistico immobiliare, quello tecnologico industriale e quello infrastrutturale. E tutti puntano a inglobare il made in Italy. I più attivi sono i cinesi che dal cappuccino ai robot passando per la moda si stanno comprando ogni cosa. Ci sono intere città all’incanto: succede a Venezia, succede a Firenze, sta accadendo a Roma e a Milano. La crisi del turismo e degli alberghi con offensive lanciate da fondi d’investimento internazionali, ma anche dalla criminalità organizzata tant’è che la Guardia di finanza ha drizzato le antenne dopo gli ultimi «affari» dei mandarini a Venezia, alimenta la speculazione. Se si legge in trasparenza il rapporto del Copasir sulla presenza cinese nell’economia italiana se ne ha una conferma. Stando a questa analisi, che si ferma però ai dati del 2019, circa due punti di Pil sono già direttamente in mano asiatica, ma i relatori di maggioranza – il deputato Enrico Borghi (Partito democratico) e del senatore Francesco Castiello (Movimento 5 stelle) – scrivono: «È facilmente immaginabile che nel tempo gli investitori cinesi si stiano radicando sempre più nel tessuto produttivo nazionale».
A contarle, le imprese italiane in mano a Pechino sono 405, quelle partecipate sono altre 760, il giro d’affari s’avvicina ai 30 miliardi per circa 55 mila occupati. Ci sono poi le migliaia di attività avviate da cinesi. Come a Prato dove interi quartieri sono ormai di proprietà esclusiva di questa comunità che si sta comprando anche i supermercati: l’ultimo è l’affitto del ramo di azienda della Pam in via Pistoiese.
C’è un signore che pochi conoscono; si chiama Ren Jianxin è il capo della ChemChina, la più importante azienda farmaceutica del mondo. Ha una disponibilità liquida di 500 miliardi di dollari, poco meno di un terzo del nostro Pil. In Italia è sbarcata comprandosi le gomme della Pirelli e poi si è concentrata sull’agricoltura: dal Chianti alla Pianura padana passando per la Sicilia possiede direttamente o tramite controllate 345 aziende agricole per circa 40 mila ettari.
Ma il signor Ren Janxin è solo uno dei «mandarini» che hanno deciso di fare shopping in Italia. Dentro il loro carrello della spesa c’è di tutto: dalle penne stilografiche Omas comprate dalla Xiniu Hengdeli, ai superyacht della Ferretti finiti nel portafoglio di Weichai, dall’alta moda per bambini di Pinco Pallino (ora di proprietà di Lunar Capital) agli imballaggi di carta della Fosber di Lucca che è di Guandong Dong Fang, dalle lavatrici Candy alle cucine Berloni, fino agli oli lucchesi. Dopo aver messo nel mirino i grandi asset con State Grid International SGID, che si è comprata il 35 per cento delle nostre reti energetiche essendo già entrata nel capitale di Cassa depositi e prestiti con Shandon Group, ora si sta concentrando sulle piccole e medie imprese di qualità, il «quarto capitalismo» tricolore.
La Cina è interessata, oltreché all’agroalimentare, al settore tecnologico con acquisizioni mirate come la Plati elettroforniture e la Esaote, che si è portata dietro anche l’acquisizione dell’Itt (Istituto italiano di tecnologia) con al suo interno più di 1.700 ricercatori che arrivano da tutto il mondo per sviluppare sistemi complessi di robotica. O come la Epistolio di Varese, gioiello della robotica, che ha oggi tra i soci Saimo electric, società cinese leader nell’automazione industriale quotata alla Borsa di Shenzhen.
La Cina ha poi rilevanti quote di capitale di Enel, Terna, Snam, Ansaldo Energia. È la Via della seta, è l’affare del 5G, è rendere l’Italia una succursale del business globale di Pechino. Che però ora si occupa anche di «minutaglie». A Venezia è cinese gran parte del sestriere di Cannaregio, alcuni locali storici – ad allungare una lista infinita – sono stati comprati all’inizio dell’anno: i Tre Archi, il Da Nini, il Ma Ciao. Il Caffè Florian, il più antico caffè del mondo, è chiuso e ha scatenato appetiti di speculazione, così come l’80 per cento dei locali veneziani sono con le serrande abbassate, perciò possibili prede. È in vendita l’isola di Tessera, e la fila dei palazzi storici affidati agli agenti immobiliari è lunga quanto il Canal Grande.Sono nate società specializzate nella trattativa con imprenditori cinesi come Cogefim.
Se il capoluogo veneto piange, Firenze certo non ride. Il sindaco Pd Dario Nardella se l’è presa molto per la trasmissione Report che ha presentato Firenze come una città in svendita. Resta il dato che l’80 per cento dei b&b fiorentini è vuoto, la città ha i ristoranti chiusi e le boutique del centro sono in sofferenza; così come le «cattedrali dello shopping» di via Condotti a Roma o Montenapoleone a Milano. Negozi sfitti, canoni crollati, merce sparita.
Lo stesso Nardella è arrivato a minacciare di dare in pegno il demanio pubblico per evitare il tracollo del comune, che ha 200 milioni di debiti perché la città non riesce a generare entrate. C’è chi si è fatto sotto come il gruppo immobiliare israeliano Webuyhotel73 che ha detto apertamente di voler approfittare della crisi. Un mese fa il Monte dei Paschi ha chiuso la vendita di suoi 29 immobili di pregio tra Roma e Milano per 300 milioni al gruppo francese Ardian. In Chianti, per esempio, i cinesi sono arrivati da tempo con fondi di investimento di Hong Kong: a Montalcino molte cantine ormai sono in mano a stranieri e uno dei gruppi più importanti d’Italia nel settore del vino come Terra Moretti ha stretto una partnership con Nuo Capital SA di Stephen Chang, discendente della dinastia di Hong Kong Cheng Pao, e perfino una cantina del Monferrato che fu di un grande del calcio, Nils Liedholm, è finita ai cinesi.
«Svenditalia» diventa un affare di Stato quando si parla d’infrastrutture e di industrie strategiche. Il ministro (fino al momento in cui scriviamo) per lo Sviluppo economico Stefano Patuanelli ha sul tavolo oltre 180 crisi aziendali. Molte riguardano gruppi stranieri che si stanno disimpegnando dall’Italia: acquisiscono marchio e know how e poi portano le produzioni fuori dai nostri confini.
È il caso della Whirlpool di Napoli, della Treofan e delle Acciaierie speciali di Terni, della Embraco, della Mercatone Uno, di Auchan e ArcelorMittal. A questi scenari si accompagnano gli assalti ai porti. La Germania si compra quello di Trieste, la Cina ha messo nel mirino Taranto. Cinesi e tedeschi stanno dentro Aspi (Autostrade) e questo crea ulteriori problemi sulle concessioni.
Ciò che è evidente è che ogni Paese ha una sua lista della spesa. Nel primo semestre 2020 le acquisizioni sono state pari a 9 miliardi e hanno riguardato quasi esclusivamente piccole e medie imprese. Nell’ultimo decennio in Italia sono state comprate aziende per 67 miliardi. Tra le dieci operazioni più importanti sei sono state fatte da multinazionali straniere: Pirelli da ChemChina, Magneti Marelli da Calsonic Kansei Corporation (società giapponese attiva del settore automobilistico controllata dal fondo americano Kkr), Avio spa da General Electric, Rhiag da Lkw, Ansaldo Ferroviaria da Hitachi Ltd. In testa tra i compratori ci sono ancora americani, poi i cinesi. Terzi clienti sono i tedeschi che si sono concentrati sulla meccanica, quarti i giapponesi che dopo Ansaldo Breda hanno puntato su aziende ad alto valore aggiunto come Fiamm, DelClima, Daikin. Infine gli inglesi che utilizzano i fondi di private equity per entrare in marchi del made in Italy affermati, fare plusvalenze e quindi dismettere.
Ognuno, come si fa con i saldi, cerca l’occasione: per acquisire quote di mercato, competenze ed eliminare un concorrente. L’Italia, appunto.
Ci siamo giocati anche l’auto

L’operazione Stellantis porta Fca nell’orbita dei francesi di Psa. A loro, infatti, andrà la gestione operativa del nuovo gruppo da 8,7 milioni di veicoli. E con la cessione dei camion Iveco ai cinesi di Faw, gli Agnelli alienerebbero un altro pezzo della più storica produzione industriale italiana.
di Guido Fontanelli
Gli Agnelli accelerano la ritirata dal mondo delle quattro ruote mentre il governo sta a guardare. E non è una bella notizia per la nostra industria. Salutata con grande entusiasmo dai giornali italiani, la fusione tra Fca e il gruppo transalpino Psa è sicuramente un successo per la Francia e un bel colpo per gli Agnelli. Ma rappresenta una sconfitta per il nostro Paese. Al di là della retorica per la creazione del quarto gruppo mondiale dell’auto (in realtà nel 2020 sarà al sesto posto per via del crollo delle vendite in Europa causa Covid), la nascita di Stellantis mette la parola fine al ruolo che gli italiani hanno avuto nella storia dell’automobile di massa. Una conclusione inevitabile dopo anni di declino, dovuto agli scarsi investimenti da parte degli azionisti e alla totale disattenzione dei governi, pronti a spendere miliardi per tenere in piedi l’Alitalia ma incapaci di difendere un’industria che, con tutto il rispetto per piloti e hostess, ha un’importanza ben più rilevante nel tessuto produttivo di un Paese. Un copione che, a pochi giorni dall’esordio di Stellantis, rischia di ripetersi con Iveco. Il produttore di veicoli commerciali fa parte di Cnh, controllata sempre dagli Agnelli tramite Exor, e fattura una decina di miliardi con 24 stabilimenti in 11 Paesi, 6 centri di ricerca e 25 mila dipendenti, di cui circa 8 mila in Italia. Il 7 gennaio è trapelata la notizia che la società potrebbe essere ceduta ai cinesi della Faw, colosso di proprietà statale con ricavi per circa 78 miliardi di euro. Gli Agnelli si libererebbero così di un altro storico pezzo del loro impero industriale. Solo la Ferrari, che in Borsa vale più di Fca, resta ben protetta nel forziere di famiglia Exor.
Il risultato di tutto questo? Il sistema Italia ha prima distrutto gran parte della propria produzione di automobili, a differenza di Paesi simili per dimensioni e tenore di vita come la Francia; e poi, con la nascita di Stellantis e la cessione di vari altri pezzi pregiati come Magneti Marelli o Iveco, sta pure perdendo il controllo su questo settore. Si ha insomma l’impressione che l’Italia abbia brandito la fiaccola del liberismo economico, sia corsa in avanti difendendo la libera impresa e l’apertura dei mercati per poi girarsi indietro e vedere che altri Paesi europei, come Francia e Germania, si sono tenuti ben stretti la loro produzione di auto, a costo di entrare nella proprietà delle aziende o direttamente o attraverso i lander. Con l’aggravante, per l’Italia, di aver foraggiato e sostenuto gli Agnelli ottenendo ben poco in cambio. E forse è ormai impossibile seguire l’esempio del Regno Unito o della Spagna che, pur non controllando alcuna società dell’auto, sono almeno diventate delle importanti piattaforme produttive.
In condizioni normali, cioè prima dell’emergenza Covid, il panorama del settore in Europa era, e probabilmente sarà, questo: in Germania ci sono tre case nazionali più l’Opel (ora della Psa) che producono localmente 4,7 milioni di veicoli all’anno; in Francia Psa e Renault sfornano 2,2 milioni di vetture; la Spagna ne fabbrica 2,8 milioni. L’Italia, famosa in tutto il mondo per l’Alfa Romeo, la Maserati, la Ferrari e anche per la Fiat, si è ridotta a produrre nel 2019 appena 915 mila tra auto e furgoni. Meno di Slovacchia (1,1 milioni di vetture all’anno) o della Repubblica Ceca (1,4). Come ricorda il giornale americano Automotive News, la bibbia del settore, «due decenni fa, il marchio Fiat gareggiava con Ford, Peugeot, Renault e Volkswagen per la prima posizione in Europa. Ma anni di sottoinvestimenti in nuovi prodotti e l’uscita del marchio dal segmento chiave delle utilitarie hanno fatto precipitare le sue vendite. I marchi premium Mercedes, Bmw e Audi vendono ora più auto in Europa di Fiat, così come Skoda e Toyota. Nel 2019, Fiat ha immatricolato circa 660 mila auto nei mercati europei, secondo l’associazione di categoria Acea, mentre il marchio Volkswagen, leader di mercato, ne ha vendute 1,8 milioni».
È vero che Fca, grazie all’acquisizione negli Usa di Chrysler con i marchi Ram e Jeep, e alla sua tradizionale presenza in America Latina, è diventata una multinazionale che nel 2019 ha commercializzato 4,6 milioni di auto e furgoni nel mondo, ma il grosso (oltre tre milioni) viene venduto nelle Americhe e non a caso il suo ultimo amministratore delegato è stato l’ex capo di Jeep, Mike Manley: in Nord America il gruppo vanta una quota di mercato del 12 per cento, in America del Sud del 14 per cento. Invece in Europa, Italia compresa, Fca è marginale: ha una quota di mercato di appena il 6 per cento, mentre la Volkswagen viaggia oltre il 25 per cento, la francese Psa ha il 16 e la Renault l’11.
Sì, gli Agnelli potrebbero ribattere che sono loro i primi azionisti di Stellantis, un colosso con 8,7 milioni di auto vendute, 400 mila dipendenti e oltre 180 miliardi di euro di fatturato: la loro finanziaria Exor ha infatti il 14,4 per cento della nuova società, seguita dalla famiglia Peugeot con il 7,2, lo Stato francese con il 6,2 e i cinesi di Dongfeng con il 5,6 (in futuro le quote detenute da Dongfeng e dal governo francese dovrebbero scendere). Ma c’è da notare che cinque consiglieri di amministrazione sono indicati da Fca e cinque da Peugeot, mentre l’undicesimo componente è l’amministratore delegato Carlos Tavares, il manager portoghese già capo di Psa. E la guida operativa è affidata appunto al manager, considerato uno dei migliori dirigenti dell’auto a livello mondiale, capace di digerire l’acquisizione dell’Opel e di mantenere i conti di Psa in utile, pur operando quasi esclusivamente nella competitiva Europa con vetture di massa.
Insomma, di fatto Fca è finita in mano ai francesi. I quali di solito hanno le idee ben chiare su come far pesare il loro potere e difendere i posti di lavoro (a casa loro). Mentre gli Agnelli, incassati ricchi dividendi, sono finalmente riusciti a coronare il sogno di diluire in una grande alleanza un’industria che consideravano troppo rischiosa: prendi i soldi e scappa.
Tavares non avrà un compito facile. Dovrà dare nuova vita ai marchi Alfa Romeo, Maserati e Fiat (magari ridotta a diventare l’entry level del gruppo, come Skoda in Volkswagen o Dacia in Renault). Dovrà usare meno piattaforme possibile declinandole su ben 14 differenti brand. Ed evitare che la capacità produttiva di Stellantis, stimata in 14 milioni di veicoli, non resti troppo sottoutilizzata. Ma il manager ha dimostrato di essere un fuoriclasse.
Come sia ridotta oggi Fca in Europa è sotto gli occhi di tutti. Il marchio Fiat è rappresentato ormai da neppure una decina di modelli sotto i brand Panda, 500 e Tipo. L’Alfa Romeo è ancora una promessa non mantenuta: il piano dell’ex amministratore delegato Sergio Marchionne prevedeva vendite annue di 400 mila unità entro il 2022; nel 2019 le vendite sono state ben al di sotto delle 100 mila. Discorso simile per Maserati: come ricorda Automotive News «il business plan di Fca per il 2014-18 prevedeva che le vendite salissero a 75 mila vetture all’anno. Invece, hanno raggiunto un picco di circa 50 mila unità prima di scivolare a 35 mila nel 2018 e a meno di 20 mila nel 2019».
Altre spine per Fca sono la Cina e le emissioni di CO². Nel più grande mercato dell’auto al mondo, le vendite del gruppo sono scese da 163 mila vetture nel 2018 a 92 mila nel 2019 (soprattutto Jeep). Mentre sul fronte emissioni Fca è in ritardo: avendo una gamma di auto piccole e medie, il suo target da raggiungere secondo le regole europee è di 92 grammi di CO² per chilometro, mentre la sua flotta ha una media dei 95 grammi, non avendo investito a sufficienza in auto elettriche e ibride. Così, per evitare di pagare multe salate all’Europa, Fca ha speso centinaia di milioni di euro per acquistare da Tesla una sorta di «crediti verdi».
Anche Psa con i suoi marchi Peugeot, Opel, Citroen e Ds ha alcune debolezze: intanto dipende troppo dalle vendite in Europa, dove immatricola l’86 per cento della produzione. Il gruppo francese ha visto poi crollare le vendite in Cina, passate da 700 mila unità nel 2014 a meno di 100 mila nel 2020. E, infine, non è presente negli Stati Uniti: ci tornerà proprio grazie all’unione con Fca, uno dei motivi del matrimonio. In compenso Psa ha una gamma ricca di motorizzazioni ibride ed elettriche ed è pronta a sfidare i tedeschi di Volkswagen nel mercato della mobilità del futuro. E poi è gestita bene: nei primi sei mesi del 2020 ha portato a casa utili per 376 milioni contro i 2 miliardi di perdita di Fca. Come italiani, dobbiamo solo sperare che i francesi abbiano successo e possano rilanciare gli stabilimenti della Penisola. Purché il governo batta un colpo.