Per una concomitanza negativa di fattori, l’Italia rischia di perdere un presidio tecnologico essenziale per la sua digitalizzazione. La concorrenza di un prodotto in arrivo dall’Asia – che costa meno ma è di qualità assai inferiore – ha un risvolto della medaglia: continue riparazioni necessarie alle linee interrate nelle strade di molti comuni. La Francia, a riguardo, potrebbe darci un’utile lezione di salvaguardia nazionale.
Bello scoprire che l’Italia possiede un primato in un settore fondamentale per l’economia digitale. È infatti di Milano il leader europeo della fibra ottica: Prysmian, un colosso da oltre 15 miliardi di euro di fatturato che produce cavi per l’energia e le telecomunicazioni e, appunto, quei sottili filamenti ricavati dal vetro che trasportano i dati. Ma la notizia buona finisce qui. Perché Prysmian ha deciso di interrompere l’attività nel suo impianto di Battipaglia, in provincia di Salerno, mentre continua a potenziarla invece in un analogo stabilimento in Francia, a Douvrin, cittadina a 200 chilometri a nord di Parigi. La società controllata da Prysmian che realizza cavi in fibra ottica in Campania si chiama Fos, dà lavoro a circa 290 persone ed è un fiore all’occhiello della tecnologia made in Italy. Il suo prodotto ha elevati livelli di qualità, sottilissima e resistente. Una fibra di scarsa qualità mette a rischio la trasmissione delle informazioni, si rompe più facilmente e costringe i comuni a riaprire scavi nelle strade e nei marciapiedi per ripararla. Quella «premium» invece è molto più affidabile, ma costa di più. Ci si potrebbe aspettare che un Paese che sta ancora completando i piani per portare la banda larga anche nei paesini più sperduti rappresenti il mercato ideale per un’azienda come la Fos. Ma non è così, per l’intrecciarsi di tre fattori che da tempo penalizzano l’industria italiana anche in altri settori: la concorrenza a basso costo delle società asiatiche, alcune discutibili scelte di Bruxelles e la mancanza di una politica «dirigista» alla francese.
Tra il 2018 e il 2019, Prysmian aveva addirittura previsto un investimento di 60 milioni di euro per innalzare ulteriormente il livello qualitativo di Battipaglia aumentando la produzione da nove milioni a 14 di chilometri di fibra all’anno, in vista di una crescita della domanda. Ma proprio in quegli anni si stavano affacciando sul mercato europeo aziende asiatiche come le cinesi Ztt (13,4 miliardi di dollari di fatturato), Hengtong Optic-Electric (sei miliardi di dollari) o Yangtze Optical Fibre and Cable (1,6 miliardi) e l’indiana Sterlite Technologies Limited (circa 800 milioni). Gruppi capaci di offrire la fibra standard a prezzi molto bassi, pari anche a un terzo del costo della «premium», grazie a materie prime, energia e lavoro più convenienti rispetto all’Europa: una fibra di qualità Prysmian costa circa 6,5 euro al chilometro, contro i 2,3 euro della fibra standard asiatica. Di fronte a questa aggressiva concorrenza, l’Europa annunciò nell’ottobre del 2021 l’imposizione di dazi sui cavi in fibra ottica importati dalla Cina dopo avere rilevato che venivano venduti a prezzi artificialmente bassi. L’indagine era partita da un reclamo di EuropaCable, l’associazione che rappresenta i produttori europei di cavi per le telecomunicazioni, tra cui l’italiana Prysmian e la francese Nexans (7,7 miliardi di euro di ricavi).
Ma i dazi, in parte aggirati dalle case orientali, sono serviti a poco e i prezzi sono rimasti competitivi. E qui veniamo al secondo fattore: la politica antitrust di Bruxelles ha imposto una concorrenza tra le società di telecomunicazioni (vedi box qua sotto) a un punto tale da non garantire al settore un’adeguata redditività, con il risultato che le società di tlc fanno fatica ad investire e cercano di spendere il meno possibile: e così comprano fibra asiatica di livello standard e poca «premium» come quella prodotta a Battipaglia. A fronte degli otto milioni di chilometri di fibra all’anno richiesti dal mercato italiano, la Fos ne vende solamente 500 mila chilometri, mentre il resto arriva dall’estero. In realtà l’industria italiana avrebbe potuto avere ben altro sviluppo se il governo, e qui arriviamo al terzo punto, avesse copiato la Francia, dove infatti la fabbrica di fibra ottica della Prysmian gode di ottima salute. Parigi varò nel 2013 il piano «France Très haut débit», Francia a banda larghissima, con l’obiettivo di raggiungere con la fibra tutto il Paese entro il 2025.
Il governo transalpino convocò società di tlc e fornitori e stabilì tra l’altro parametri qualitativi e tecnici minimi per la partecipazione ai bandi pubblici relativi all’installazione di cavi di fibra, in modo da garantire la sicurezza della rete e tutelare le eccellenze produttive sul proprio territorio. Compreso il sito produttivo a Douvrin dell’italiana Prysmian. In Italia questa decisione non è stata presa, nonostante le pressioni sui governi Conte e Draghi avviate fin dal 2018. In assenza di specifiche tecniche qualitative, le imprese incaricate della stesura della fibra che si sono aggiudicate i bandi possono dunque installare quella asiatica invece di quella prodotta in Italia. E i progetti di sviluppo della Fos si sono dissolti. Di fronte alla crisi dell’azienda campana la politica si è finalmente messa in movimento, anche se i buoi sembrano ormai scappati dalla stalla. A livello locale i sindaci campani si sono mobilitati per dire «no» alla fibra ottica asiatica.
A livello nazionale l’Agcom, l’autorità delle telecomunicazioni, ha organizzato un tavolo tecnico per analizzare la proposta di identificazione degli standard tecnici da utilizzare nella realizzazione di infrastrutture di fibra ottica. E il governo Meloni si sta dando da fare per cercare di salvare lo stabilimento. Il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, ha incontrato i rappresentanti dell’azienda e le parti sociali. «Siamo fortemente impegnati nell’individuare una soluzione per il futuro dello stabilimento produttivo, salvaguardando un’attività ad altissimo valore strategico a cui non intendiamo rinunciare. Continueremo il confronto con tutti gli attori affinché questa azienda, dall’elevato patrimonio tecnologico, possa continuare a competere a livello globale» ha dichiarato Urso. Al momento sarebbero in corso trattative con tre gruppi per il rilancio del sito, due stranieri e uno italiano. Intanto però il Piano Aree Bianche avviato nel 2017 e il Piano 1G sulla rete fissa avanzano con fatica. Il primo, che deve portare internet veloce a tutti gli italiani che non sono ancora raggiunti dal servizio, dopo quasi otto anni è solo al 54 per cento di avanzamento. Il secondo, finanziato con i fondi del Pnrr, si propone di fornire a tutti gli italiani una rete internet con velocità di almeno un Gigabit entro il 2026. Ma già si parla di spostare la scadenza di un anno. Comunque, al di là dei ritardi, è evidente che l’Italia avrà bisogno nei prossimi anni di chilometri e chilometri di fibra ottica. Tutta cinese o indiana? Magari no.
