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La lezione di Emirates che l’Italia (Alitalia ed Ita) non ha capito

La lezione di Emirates che l’Italia (Alitalia ed Ita) non ha capito

La compagnia degli emirati ha festeggiato i grandi successi della tratta Milano-New York frutto di un modello di sviluppo che ci basterebbe imitare. Ma non vogliamo vederlo e capirlo

La celebrazione dei risultati della compagnia Emirates sulla tratta Milano–New York a dieci anni dal suo esordio che sta apparendo sulla stampa è meritata. Anzi, potremmo definirla una lezione da imparare. Nel momento in cui cominciò il volo emiratino tra Malpensa e il Kennedy, il mondo era però un posto decisamente differente da quello attuale e le compagnie che offrivano quel viaggio lo facevano su aeroplani piuttosto vecchi, e soprattutto erano soltanto Alitalia e Delta. Così il servizio offerto dagli arabi, anche in classe Economy, ma soprattutto Business, grazie ad aeroplani nuovi (B777 e poi A380) pareva di un altro pianeta. Ecco dunque che in dieci anni secondo alcune stime di esperti la rotta avrebbe reso 1,5 miliardi di euro (ma attenzione, il bilancio globale del vettore si sta riprendendo dalla crisi Covid come quello di tutti gli altri, e lo leggete qui The Emirates Group Annual Report | 2022-2023 (ekstatic.net). Emirates ha anche dichiarato di aver trasportato oltre 1,8 milioni di persone in oltre 6.000 voli trasportando anche 37.000 tonnellate di merci nel corso degli ultimi 10 anni.

Il collegamento tra Milano e Grande Mela non era il primo in regime di quinta libertà, ovvero fatto da una compagnia che non ha la stessa nazionalità dei paesi di origine e destinazione, ma è stato uno dei primi intercontinentali di questo tipo con partenza dall’Italia a esserlo. Tuttavia, bisogna tornare indietro per comprendere la situazione di allora: nel 2013 l’America stava uscendo dalla crisi del 2008 e l’Europa affrontava quella greca con l’Italia in piena guerra politica per lo spread e il ribaltone del 2011.

Alitalia era in perenne crisi con più voci a chiedere di farla fallire, dunque, nessuno tranne gli arabi – e i cinesi non ancora – aveva la liquidità e la forza imprenditoriale per dotarsi di velivoli di nuova generazione, né per pensare a esportare la nostra aviazione nel mondo pensando a collegamenti in regime di “quinta libertà”. A chi seguiva il settore dell’aviazione civile, e di questa i suoi risvolti commerciali, fu chiaro che gli equilibri in essere stavano cambiando e che qualcuno cominciava a concretizzare quanto previsto dagli accordi in materia di aviazione tra Unione europea e Stati Uniti, frutto delle disposizioni CE 339/2007, oggi comprensive di quanto previsto anche dalla CE 1110/2020. L’accordo prevede l’apertura di tutte le rotte transatlantiche per le compagnie aeree dell’Unione e degli Stati Uniti, la possibilità di sviluppare ulteriormente l’accordo per questioni quali la proprietà e il controllo delle compagnie aeree; l’accesso al mercato e i diritti di traffico con le questioni commerciali e operative, consentendo di effettuare voli verso gli Stati Uniti da qualsiasi aeroporto comunitario e quindi di operare rotte internazionali senza restrizioni sul numero di voli o sul tipo di aeromobile, anche per vettori di nazioni terze purché in regime di governi riconosciuti e non appartenenti a liste di “paesi canaglia”. L’accordo consente anche la libertà dei prezzi seppure i vettori statunitensi non possano fissare i prezzi per le rotte interne all’Unione, e contiene norme dettagliate su affiliazione commerciale e impiego del marchio per permettere alle compagnie aeree dell’Unione di estendere la loro presenza nel mercato statunitense.

Una tale liberalizzazione, seppure perfezionata soltanto nel 2020, costituiva un’occasione unica per i vettori europei – prima che per gli altri – che avessero voluto aprire collegamenti ovunque negli Usa, ma ad approfittarne veramente furono compagnie non europee. Il fatto che la scelta di Emirates ricadde su Malpensa e non su Fiumicino fu emblematica perché dimostrò due fatti che la politica nazionale faceva finta di ignorare. Il primo: che la Lombardia era il vero cuore industriale del paese e l’approdo scelto dagli americani. Secondo: che Malpensa non avrebbe mai potuto divenire uno hub come lo erano Parigi CdG e Francoforte, ma che avrebbe trovato il suo reale mercato soltanto nel sistema aeroportuale lombardo composto anche dal “Forlanini” di Milano e da “Il Caravaggio” di Bergamo. E il tutto accadde mentre si verificava una rapida alternanza dei governi italiani che aveva azzerato la poca politica dei trasporti che il nostro Paese da sempre riesce a fare, soprattutto quella di un settore dinamico e dall’evoluzione rapidissima come quello aeronautico. Una figura da peracottai non degni di essere gli eredi di chi sviluppò i migliori collegamenti aerei a lungo raggio del mondo agli albori dell’aviazione. E nulla fa presagire che il governo stia studiando quale possibile evoluzione abbia il settore oggi, per esempio con la necessità di ricostruire i nostri collegamenti aerei interregionali prima che a farlo siano altri. Così il caso Emirates Malpensa-New York rimarrà tra gli esempi di prodotto giusto nel momento giusto, anche oggi che la concorrenza è serrata e vede a farsi concorrenza ben sei vettori, sebbene ognuno con offerte differenti per livello di servizio e frequenze. La morale? Noi italiani dobbiamo tornare a guardare oltre l’orizzonte delle elezioni più vicine.

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