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Quel treno in arrivo da Wuhan

Quel treno in arrivo da Wuhan

  • Quel treno in arrivo da Wuhan
  • La via del ghiaccio di Vladimir Putin

Sta raggiungendo Milano dopo 9.000 chilometri il primo treno merci partito dalla città epicentro della pandemia. Testimonianza del boom del traffico su rotaia ma anche di com’è cambiato il mondo ai tempi del Covid. Dove si parla cinese. E tedesco.


È partito dall’epicentro della pandemia che ha sconvolto il mondo, e sta arrivando in Italia. Si tratta dell’X8015, un treno merci che per la prima volta percorre il tragitto commerciale Wuhan-Milano. La notizia è stata battuta con enfasi il 20 marzo dall’agenzia di stampa del regime cinese, Xinhua, rilanciata in mezzo mondo sui mezzi di informazione «amici» e in Italia dall’Ansa, con cui ha un accordo di collaborazione per divulgare le news emanate da Pechino. «Un treno merci Cina-Europa stamattina ha lasciato Wuhan, capoluogo della provincia centrale cinese dello Hubei, alla volta di Milano, segnando il lancio di una nuova rotta prolungata per il servizio».

In 21-22 giorni (arrivo in Italia dunque intorno al 10 aprile) e per circa 9.000 chilometri il convoglio ha sferragliato in Asia centrale, superando Alataw, il passo di montagna al confine tra Cina e Kazakistan conosciuto anche come Porta di Zungaria, e approdando a Duisburg, Germania. Da lì i vagoni con a bordo «prodotti elettronici, componenti di auto e forniture per la prevenzione dell’epidemia» (dice Xinhua citando informazioni fornite da Wuhan Asia-Europe Logistics) proseguono fino al terminal di Melzo, cioè alle porte di Milano, vicino alle autostrade dove le decine di container continueranno su gomma il lungo viaggio fino a destinazioni capillari nel nostro Paese. A gestire il tutto, dopo una prima collaborazione con le ferrovie cinesi, è la Rail cargo carrier, delle ferrovie austriache Öbb.

Secondo testimonianze tra gli operatori di scalo, raccolte da Panorama, non sono previste profilassi particolari o verifiche sanitarie per il mezzo in arrivo. «I container sono scaricati direttamente dal treno al tir, di sicuro non sono sanificati» dicono. «D’altro canto il virus non si trasmette su oggetti che viaggiano per tanti giorni e non ci sono contatti con l’uomo: è tutto operato attraverso macchine. Per non dire che da quelle parti l’epidemia è più sotto controllo che da noi».

Lo X8015 in realtà è una classe di treni specializzata nelle tratte Cina-Europa. Si chiamava così anche il primo convoglio a portare nel Vecchio continente il materiale sanitario di Pechino dopo l’esplosione della pandemia: treno X8015/16 partito da Wuhan per Duisburg il 28 marzo 2020. Ma funzionava già prima, tanto che il 19 marzo si sono festeggiati i 10 anni di attività del China-Europe express. Ora arriva anche in Italia, comunque già meta finale di lunghi treni provenienti da altre regioni, Xi’an in testa.

La Cina che arriva a Milano da Wuhan è solo l’ultimo tassello di un boom senza precedenti nel traffico su rotaia con l’Europa. Più 98% in gennaio-febbraio rispetto all’anno precedente (2.213 i treni merci cinesi arrivati), e si prevede che rimarrà su queste cifre. Le motivazioni sono molte. Il treno è più green ed economico dell’aereo, ed è più veloce della nave di cui impiega una quindicina di giorni in meno su una tratta del genere (incidenti di Suez a parte).

Ma non è solo per questo che il treno va. Porta con sé il successo commerciale di Pechino: mentre l’economia dei Paesi occidentali arranca, quella del gigante asiatico si è risollevata dalla pandemia dominando nella seconda metà del 2020 e superando gli Stati Uniti nello scambio commerciale con l’Europa. Un dato da abbinare alla carenza e ai prezzi esorbitanti dei container per il trasporto marittimo.

Questo spinge il treno, anche se «non sarà mai la soluzione ai trasporti globali» dice un funzionario del mondo dello shipping che desidera rimanere anonimo. «Avete presente quanti container può portare una nave? Fino a decine di migliaia. Il treno qualche decina. Per ora non è competitivo né remunerativo e il servizio rimane in piedi solo grazie ai forti sussidi del governo cinese, che sta cercando di farlo conoscere e ottenere prima o poi una massa critica di volumi. Ma per ora intorno a questi treni transcontinentali ci sono sussidi, propaganda e un po’ di business».

Rimane però fondamentale per Pechino la realizzazione – anche via rotaia – della Nuova Via della seta, l’immenso progetto per avvolgere il mondo nella sua rete di affari e soft power. Un moltiplicatore di commerci che i tedeschi sono stati veloci a intercettare. Il commercio sino-europeo su rotaia passa per gran parte dalla Germania, che ha creato un grande snodo nella citata Duisburg. È qui che il diretto Wuhan-Milano fa tappa ed è sottoposto a operazioni di riassetto di cui non siamo a conoscenza. Centro industriale, principale polo siderurgico tedesco e maggiore porto fluviale al mondo gestito dalla società Duisport, ci passa buona parte di cosa arriva nei nostri terminal dalla Cina.

Già a fine 2018 il quotidiano Guardian titolava «Una città della Cina in Germania: come Duisburg è diventata la porta d’ingresso di Xi Jinping in Europa». E lo è sempre di più. In questi giorni Duisport ha creato una joint venture (la Multimodal Investments Pte Ltd) con una società di Singapore (PSA International) per investire in strutture logistiche multimodali in Asia, incrementando le connessioni con l’Europa e portando il polo tedesco a divenire di fatto un socio di aziende statali cinesi, come il gruppo ferroviario China railways, controllato direttamente dal governo di Pechino.

Si aggiunga che Duisport in dicembre è entrata con il 15% nell’Interporto di Trieste (ovvero l’accesso al Mediterraneo), di cui in giugno dovrebbe esserci anche un’acquisizione da parte delle ferrovie austriache Öbb – quelle che gestiscono l’X8015 – e si intuirà che il treno Wuhan-Duisburg-Milano è frutto di dinamiche assai ampie. Dove l’Italia sembra un Paese importante, ma è più utile che protagonista.

La rotta artica di Vladimir Putin

Quel treno in arrivo da Wuhan
Rompighiaccio russo in navigazione nell’artico sulla rotta del Polo Nord. A destra, Vladimir Putin (Getty Images).

Ci sono due giganteschi cilindri metallici ricolmi di uranio che se ne vanno in giro lungo la costa settentrionale russa. Fortunatamente non si tratta di armi di distruzione di massa uscite dagli arsenali del Cremlino, ma dei due reattori nucleari installati sulla nave rompighiaccio Arktika. Entrata in servizio lo scorso novembre, è la più grande imbarcazione di questo tipo mai realizzata. Almeno per il momento, dato che per ordine di Putin entro il 2035 i cantieri navali russi dovranno sfornare almeno altre sette rompighiaccio a propulsione nucleare. Tre di queste apparterranno a una nuova classe navale, ancora più faraonica delle precedenti per dimensioni e potenza.

La passione del Presidente di tutte le Russie per la marina non deriva da ricordi di gioventù, avendo servito nel Kgb e non nella flotta sovietica, bensì dalla volontà di sviluppare il traffico marittimo lungo la Rotta artica. Questa parte dall’arcipelago di Novaya Zemlya, sulla costa russa europea settentrionale, e porta allo Stretto di Bering, in fondo alla Siberia. E viceversa, naturalmente. Costituisce un tratto del più ampio passaggio settentrionale, la rotta che dai porti europei del mare del Nord arriva fino a quelli del Pacifico asiatico.

Si tratta di un percorso più breve rispetto a quello meridionale che passa per il Mediterraneo. E mai come quando si parla di trasporto marittimo, il tempo è denaro, come dimostra in queste settimane il caso della portacontainer «Ever Given», che si è incagliata nel Canale di Suez bloccando il traffico marittimo e causando perdite economiche astronomiche. E spingendo i russi a cogliere la palla al balzo per fare un po’ di pubblicità alla rotta alternativa che passa per le loro acque.

Alessandro Panaro, capo servizio Maritime & Energy del centro studi SRM, commenta: «Sul percorso della Rotta artica abbiamo realizzato uno studio insieme a Intesa Sanpaolo. Abbiamo stimato che andare da Rotterdam a Shanghai sia più veloce rispetto allo stesso viaggio tramite Suez con un risparmio del 20%, pari a circa una settimana di viaggio. I dati ci dicono che i transiti navali sull’asse settentrionale sono considerevolmente aumentati, passando da 697 nel 2019 ai 1.281 del 2020».

La tratta polare però è battuta al momento da soli 300 navi contro le 19.000 che ogni anno passano per la strettoia egiziana. Non è infatti sempre percorribile senza rompighiaccio, anche se la finestra temporale favorevole alla navigazione si sta allargando di anno in anno. A causa dell’aumento delle temperature, la banchisa artico si fa sempre più ridotta. Entro il 2035 potrebbe annullarsi nei mesi estivi, secondo le stime del British antarctic survey. Una catastrofe non solo per orsi polari e trichechi, ma per l’intero pianeta.

Putin però preferisce guardare il bicchiere mezzo pieno di ghiaccio sciolto e concentrarsi sulle opportunità economiche «scongelate» dall’emergenza climatica. Nel 2018 ha fissato un obiettivo di 80 milioni di tonnellate di merce trasportata annualmente lungo la rotta artica entro il 2024, posta poi rilanciata a 90 entro il 2030. Il diktat è rivolto in particolare Rosatom, il conglomerato pubblico russo che si occupa di energia e che dovrà farsi carico di sviluppare la maggior parte dei progetti e delle infrastrutture.

Se ufficialmente regna l’ottimismo alla luce della rapida crescita del traffico degli ultimi anni, con 33 milioni di tonnellate raggiunte nel 2020, è ipotizzabile che nella discrezione degli uffici si abbia a che fare con preoccupanti previsioni. La Camera dei conti del Parlamento russo ha definito senza mezzi termini «irrealizzabile» l’obiettivo entro i tempi stabiliti. L’associazione che riunisce i porti marittimi russi, nelle sue stime ritiene che, nel migliore dei casi, si arriverà a 52 milioni di tonnellate. I costi di costruzione e assicurativi per le navi destinate alla tratta polare restano poi molto alti: come il Titanic insegna, il ghiaccio è sempre un pericolo da non sottovalutare.

Al Cremlino servirebbero dei partner, soprattutto per sostenere gli ingenti investimenti necessari. Guardando a Ovest però le gelide relazioni con americani ed europei non accennano a sciogliersi, nonostante la prospettiva economica appetibile. «L’Unione europea ha un peso scarsissimo nella regione, pur essendo un osservatore del Consiglio artico, e la cooperazione con Mosca si è sempre più ridotta dopo l’annessione russa della Crimea nel 2014» commenta Alessandro Vitale, titolare del corso in Arctic studies presso l’Università degli Studi di Milano.

«In quest’area estrema la Russia si scontra anche con gli Stati Uniti, a causa delle differenti visioni geopolitiche rispetto alle acque internazionali, in modo simile a quanto tale questione si sviluppa a Cipro o nel Mar Cinese meridionale. I russi rivendicano l’estendibilità dei confini marittimi a 230 miglia dalla propria costa, scelta su cui gli americani non sono affatto d’accordo. Mosca però sta puntellando il progetto con enormi investimenti, anche insieme ai cinesi, accompagnandolo con una crescente militarizzazione delle acque artiche: sono state create decine di nuove basi aeree per rafforzare il controllo sul Mar Glaciale Artico».

Volgendo lo sguardo a est, Putin vede sorridere il Dragone. La Cina, perennemente affamata di materie prime e di sbocchi commerciali, guarda con grande interesse allo sviluppo della rotta artica. In primo luogo come a un corridoio energetico: lo scorso anno due terzi della merce trasportata sulla tratta è stata costituita da gas liquefatto. Nei fondali delle acque polari russe sono inoltre custodite enormi riserve di petrolio e metano. Cncp, la compagnia petrolifera cinese di Stato, ha già investito una quota del 20% nello sviluppo del colossale giacimento artico di Yamal, in cui si stimano 907 miliardi di metri cubi di gas.

Pechino guarda alla direttrice artica sul medio periodo anche come ramo «ufficioso» della sua Nuova Via della seta per far arrivare le sue merci in Europa. La compagnia marittima cinese Cosco è già la più attiva su questa tratta e copre il 19% dei transiti complessivi; la prima nave cargo cinese ha percorso il tragitto nel 2013 e il numero di viaggi, seppur ancora limitato, da allora è aumentato di anno in anno.

Uno studio del governo olandese nel 2015 aveva stimato che il traffico mercantile attraverso il Canale di Suez avrebbe potuto ridursi di due terzi col pieno sviluppo della rotta artica. Pessima notizia per gli scali mercantili del Mare Nostrum, compresi quelli nostrani in crisi già dal periodo precedente alla pandemia.

Ma quanto è attendibile la previsione? Panaro fornisce il quadro: «La rotta, almeno nel breve termine, non rappresenta un vero pericolo per i porti italiani e per i traffici del Mediterraneo, che è strategico e lo rimarrà ancora a lungo visti i mercati che il bacino offre affacciandosi su Europa, Nord Africa e alcune aree del Medio Oriente».

La rotta artica deve inoltre affrontare le criticità ambientali. Lo sviluppo del percorso marittimo e delle attività connesse è un’ulteriore minaccia all’ecosistema artico, già messo in crisi dall’aumento della temperatura. All’inquinamento prodotto dalle navi e dagli insediamenti umani si sommano i rischi legati alle attività estrattive, come lo sversamento accidentale di petrolio. Diverse grandi aziende nel settore dell’abbigliamento, da Nike a Ralph Lauren, si sono già impegnate a non spedire le proprie merci lungo la tratta polare per preservarne l’ambiente.

Intanto lo scorso 28 febbraio i russi hanno lanciato Arktika-M, il primo di due satelliti destinati a monitorare la regione. Insieme al suo gemello, che arriverà nel cosmo tra due anni, l’apparecchio monitorerà le condizioni meteo delle acque polari. Un nuovo punto di vista privilegiato per i vertici russi; chissà se servirà a mettere meglio a fuoco anche i rischi, oltre alle opportunità, della nuova corsa all’Artico. 

Francesco Paolo La Bionda

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