Grazie a una «falla» aperta in un sistema di messaggistica criptata, gli inquirenti hanno ricostruito la rete criminale che a Gioia Tauro gestiva il commercio di cocaina. Il padrino Raffaele Imperiale dialogava con i suoi complici. E muoveva tonnellate di droga e introiti multimilionari.
Quanti reati possono nascondersi in 100 milioni di chat scambiate dai più grandi narcotrafficanti del pianeta? È la Biblioteca di Alessandria del crimine organizzato quella che gli 007 francesi hanno scoperto «bucando» due piattaforme – «SkyEcc» e «EncroChat» – ritenute (a torto) inviolabili. Sistemi di messaggistica istantanei usati da boss e latitanti per concludere affari o scambiarsi confidenze. Nella rete è finito anche «l’uomo dei Van Gogh», il padrino napoletano Raffaele Imperiale, estradato la scorsa estate da Dubai per scontare una condanna per droga. Imperiale aveva anche acquistato, per 5 milioni di euro, i due dipinti rubati dal museo di Amsterdam e voleva usarli per contrattare con i magistrati italiani condizioni processuali più favorevoli. L’obiettivo era incassare i benefici del giudizio abbreviato ed evitare di tirare in ballo i suoi complici.
Una scelta che, raccontano oggi i messaggi segreti, fu avallata e plaudita addirittura dei vertici del clan degli Scissionisti, il direttorio malavitoso più potente della Campania. In una chat decriptata con il calabrese Bartolo Bruzzaniti (23 febbraio 2021) Imperiale spiega di aver restituito i due capolavori per ottenere uno sconto di pena e «per difendersi dai pentiti senza cantare (accusare, ndr) nessuno». Così, scrive, «mi rispettano tutti e mi amano tutti a Napoli». E che abbia perso i due tesori, poco male. Far ritrovare le tele del genio olandese fu una mossa di poker concordata col padrino Raffaele Amato. Perché, si legge ancora nei messaggi, «io sono cresciuto con lui, e mi diede subito carta verde».
Sulla piattaforma «SkyEcc», Imperiale aveva scelto come nickname «Plutone». Come il dio degli inferi e della ricchezza. E i soldi erano davvero la sua ossessione. «[…] Cerchiamo di essere forti che siamo solo all’inizio», consiglia al socio Bruno Carbone, tuttora latitante. «Dobbiamo fare 30 t. (tonnellate?, ndr.) quest’anno» poi «[…] possiamo anche parlare di andare in pensione che abbiamo fatto tanto per arrivare dove siamo arrivati». E incita: «Non possiamo arrenderci adesso».
Queste ed altre chat sono allegate all’inchiesta della Dda di Reggio Calabria che, a inizi ottobre, gli ha notificato una nuova misura cautelare in carcere con l’accusa di aver fatto arrivare dalla Colombia nel porto di Gioia Tauro oltre 2 tonnellate di cocaina. Valore: 800 milioni di euro. Con lui, in galera altre 34 persone. Dall’analisi di quelle involontarie confessioni, il boss appare attento alla sua reputazione criminale. Di fronte ai continui sequestri di stupefacenti nello scalo calabrese, soprattutto tra il 2020 e il 2021 per poi sfociare nell’inchiesta reggina, s’inalbera con Bruzzaniti e gli ricorda che lui dev’«essere sicuro» di poter «lavorare e non fare brutte figure». Gli «sbirri» sono in agguato. Sempre. Il padrino campano si lamenta che «sette lavori (carichi, ndr.)» sono stati «presi»; ragion per cui «noi stoppiamo per un po’… ne passerà uno su 10…».
Meglio non tirare troppo la corda, quindi. D’altronde, a quel tempo, Imperiale è tra i super ricercati del Viminale e sente il fiato dell’Interpol sul collo. Un po’ a torto, secondo lui. Da Dubai, digita sulla tastiera del telefonino all’amico Carbone: «Ormai non ce n’è rimasto più nessuno (di boss latitanti, ndr.); in Sicilia non c’è più nessuno, la verità è che non c’è più delinquenza e mettono due nomi a caso (il suo compreso, ndr.) nella lista dei ricercati, ma lo fanno solo per mangiarsi i soldi delle tasse…».
L’indagine reggina ha permesso di scoprire l’esistenza di un ordine mondiale della cocaina cui partecipano colombiani, calabresi, albanesi e napoletani. L’organizzazione di Gioia Tauro si serviva di squadre di portuali corrotti che si occupavano di trasferire la droga dai container «bollenti» ad altri puliti per stoccare la merce. Alla manovalanza veniva riconosciuta una quota sul valore della merce pari all’8 per cento. Per un carico di 300 chili di cocaina, il gruppo di lavoratori infedeli incassò 696 mila euro nel 2020. In sei consegne documentate, i pm antimafia hanno calcolato per i portuali profitti pari a 7,5 milioni. Altro che tredicesima.
Da Dubai, l’uomo dei Van Gogh pianificava ogni dettaglio. Credendosi imprendibile. Era sfuggito per un soffio alla cattura in Europa. Prima di rifugiarsi negli Emirati Arabi, era nascosto in Ucraina. «Lo hanno fatto partire da Kiev con un jet privato» ha scritto in una chat il suo uomo di fiducia, Andrea Deiana, noto come Banksy nel giro dei trafficanti. «Siamo arrivati sulla pista con quattro jeep. I servizi americani gli avevano detto di collaborare, gli davano il passaporto». Il boss però si è «rifiutato». Tempo qualche mese, e le teste di cuoio sfonderanno le porte di casa sua, nella futuribile metropoli del Golfo persico, per arrestarlo.