Il cronista di Panorama rievoca i suoi incontri con il magistrato, che oggi Pietro Amara indica come guida della fantomatica e potente associazione massonica «Ungheria». Le ricostruzioni dell’avvocato che in questo periodo fa tremare le procure non coincidono però con quei ricordi.
Ho mangiato il gelato con il capo della loggia Ungheria e non me ne sono accorto. Tra il marzo 2005 e l’inverno 2010 ho incontrato una dozzina di volte Giovanni Tinebra, il magistrato siciliano morto a 75 anni nel maggio 2017 e oggi accusato da Pietro Amara di essere stato alla guida di una loggia segreta che riuniva giudici, avvocati, manager, politici, faccendieri. Una sorta di «continuazione della P2» che sarebbe stata attiva fin dai primi anni Duemila.
L’ex procuratore capo di Caltanissetta, nel 2001, aveva ottenuto il proscioglimento di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri nell’inchiesta sui «mandanti esterni» delle stragi di Capaci e Via D’Amelio e aveva gestito il falso pentito di mafia Vincenzo Scarantino, capace di depistare per anni le indagini sull’assassinio di Paolo Borsellino. Quando cominciammo a vederci, quasi sempre la sera tardi alla gelateria La mela stregata di piazza Pasquale Paoli, di fronte al ponte di Castel Sant’Angelo, scrivevo per il settimanale L’Espresso e Tinebra guidava il Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria.
Due come noi, nell’Italia della contrapposizione tra berlusconiani e non, non avrebbero dovuto incontrarsi mai, se non in tribunale. Ma un’inchiesta giornalistica sul tentativo di privatizzare le carceri fece sì che Tinebra volle conoscermi a tutti i costi. Il titolo della prima puntata, quella che incuriosì (o preoccupò?) l’alto magistrato, era «Fra’ mattone va in prigione». Il doppio senso era perfettamente voluto e oggi che s’indaga sulla loggia Ungheria verrebbe quasi da parlare di triplo senso.
La faccia da Gran Maestro di qualcosa di deviato, Tinebra non l’aveva. Guardava sempre dritto negli occhi, non spegneva il cellulare, non parlava mai al plurale, aveva un giudizio tagliente per tutti. Aveva i capelli bianchi e le sopracciglia folte e nere, che proteggevano due fessure chiare e penetranti. Sempre in abito scuro, a seconda della stagione alternava un trench blu aviazione e un cappotto blu notte. Parlammo più volte di massoneria, accostandovi questo o quel personaggio, ma il presunto capo della loggia Ungheria ridacchiava dicendo che «le logge non contano più niente». Quelle degli altri, o parlava in generale?
Il primo incontro avvenne al bar del Gianicolo e Tinebra, già vicepresidente di Magistratura indipendente, la corrente moderata delle toghe, mi fece subito i complimenti per essere arrivato senza il suo aiuto a ricostruire quella storia che non convinceva neppure a lui e coinvolgeva un allora potentissimo consigliere del guardasigilli leghista Roberto Castelli, un certo architetto Giuseppe Magni di Lecco e un banchiere bolognese che all’epoca passava per prodiano, Massimo Ponzellini.
Andai avanti da solo per tre mesi, poi il resto lo fece la Procura di Roma perquisendo e arrestando, e il progetto costruito intorno alla fantomatica Dike Aedifica spa, la società del Tesoro che avrebbe dovuto vendere ai privati immobili di pregio come Regina Coeli e San Vittore, trasferendo i detenuti in periferia, naufragò miseramente. Tornato Romano Prodi al governo, nel 2006, Tinebra fu confermato ancora per un anno, con grande stupore di tutti. E anche mio.
Dal «Consigliere», che beveva il suo caffè mentre io mangiavo il mio gelato ricoperto, ho subìto un vero interrogatorio solo la prima sera. «Lei pensa che io sia andato al Dap perché ho archiviato Berlusconi?». Gli dissi che non lo pensavo. Allora mi chiese a bruciapelo: «Ma per lei Berlusconi è mafioso?». «No, non è mafioso, è evidente che non è un mafioso» gli risposi d’impeto «ma come molti grandi imprenditori credo abbia incontrato la mafia, magari a inizio carriera, e che si sia girato dall’altra parte e forse ci avrà anche fatto qualche affare. Il problema è che poi s’è buttato in politica». Tinebra non disse nulla e cambiò discorso.
Due anni fa, Amara ha messo a verbale con i pm di Milano che Tinebra stesso gli avrebbe confessato che invece fu proprio Berlusconi a volerlo al Dap. «La gestione complessiva delle vicende processuali di Berlusconi a Caltanissetta portò Tinebra a essere nominato responsabile del Dap, come lui stesso mi disse, ha dichiarato l’ex avvocato «esterno» dell’Eni. La volta seguente, mi portò la sua richiesta di archiviazione per il Cavaliere: «La legga, vedrà che è inattaccabile. Nessun magistrato firmerebbe mai un provvedimento così senza pensarci 100 volte». Ma con il giornalista dell’Espresso, che supponeva fiero antiberlusconiano, Tinebra non lesinava battute e critiche al Cavaliere, descritto come «un politico improvvisato».
Poi iniziammo a parlare di politica della giustizia. Ero contrario al carcere preventivo, alla legge Bossi-Fini, alla stabilizzazione del «41 bis» (il carcere duro per i mafiosi) e a quegli ergastoli che Tinebra si vantava di aver ottenuto oltre 120 volte nei suoi nove anni alla guida della procura di Caltanissetta. E poi ero a favore della separazione delle carriere tra pm e giudici, della legalizzazione delle droghe e via sognando.
Tinebra si tormentava le mani grassocce e con grande garbo cercava di smontarmi. «Guardi che siamo in Italia, mica in Islanda» ripeteva scuotendo la testa. Oggi si scopre che, secondo l’avvocato Pietro Amara, quell’uomo che mi parlava con un filo di voce nella sala buia di una gelateria che sembrava aperta solo per noi sarebbe stato il gran maestro della fantomatica loggia Ungheria ai cui vertici, insieme con lui, ci sarebbe stato anche l’ex vicepresidente del Csm, Michele Vietti, torinese come me, un avvocato di estrazione cattolica super tradizionalista cresciuto sulle ginocchia di Oscar Luigi Scalfaro. E del quale non ricordo che il «Gran Maestro» mi abbia mai parlato, nonostante amasse all’inverosimile fare «name dropping».
A Roma, Vietti era diventato molto mondano e alle sue feste non sono mai andato, come non sono mai andato da nessuna parte. Non si sa se Tinebra le frequentasse. È un peccato che io abbia fatto lo schizzinoso, perché forse avrei potuto vedere all’opera l’intera Super-loggia in versione Grande bellezza. Ricordo invece nettamente che Tinebra mi parlò male di Luigi Bisignani, lui sì davvero nella P2 da giovanissimo, ma oggi Amara racconta ai pm che erano tutti insieme nella «Ungheria», addirittura con Giancarlo Elia Valori.
Anche questo è stupefacente perché in quegli anni tutta Roma sapeva che Valori, ben visto a sinistra, e Bisignani, più vicino al centrodestra, erano due sistemi di potere che non s’incontravano mai. E per capire chi stava con Valori, bastava andare alla messa annuale in suffragio di sua madre Emilia, nella chiesa di corso Italia a pochi passi dalla redazione dell’Espresso di via Po.
Tinebra è morto il 6 maggio 2017 a Catania, ovvero due anni e sette mesi prima che Amara verbalizzasse le sue accuse. Ragiono da mesi su possibili indizi di un suo essere il Licio Gelli del terzo millennio, e nella colonnina del «forse sì» posso mettere che i comuni conoscenti che mi parlavano di lui lo chiamavano «il Presidente» o «il Consigliere»; e Tinebra era, in generale, circondato da un’aura di potere. Gli piaceva avere a che fare con i politici e i servizi segreti, anche se li valutava poco o nulla, in quanto amava mostrarsi informato. Questo vezzo, unito a un’indubbia considerazione di sé, bastava a farne un Venerabile? Non fanno così anche tanti boiardi e alcuni direttori di giornale?
Condannato a vedere la mafia e la politica come due facce della stessa medaglia, Tinebra commise anche gravi errori. Come le prime indagini su Paolo Borsellino, del quale era stato grande amico, che diedero credibilità a un falso pentito come Vincenzo Scarantino. E al Dap non si accorse del cosiddetto «Protocollo Farfalla», grazie al quale un pugno di spioni circolava liberamente per le carceri a parlare con i boss. Con il rischio di non far collaborare chi stava per farlo, o di inquinare le informazioni che i pentiti stavano dando ai pm.
Su questo, nel 2006, ebbe un duro scontro con il suo collega Sebastiano Ardita che gestiva i «41 bis» e che 15 anni dopo verrà accusato da Amara di far parte della «Ungheria». Accuse che Ardita ha smentito seccamente e poi hanno spinto lo stesso Amara, (alla trasmissione Piazza Pulita del 27 maggio 2021) ad affermare in tv che «Ardita ha costituito oggetto di dossieraggio e se mi fosse stato chiesto di spiegare la sua posizione sarei stato il suo primo difensore» perché «certamente non ha mai commesso illeciti».
Ma il Tinebra, che certe sere non aveva di meglio da fare che parlare con un giornalista «nemico», era a capo di una super loggia? Un uomo che mancò incarichi di prestigio come la Procura nazionale antimafia (perché al Csm raccoglieva al massimo due o tre voti), poteva essere il burattinaio silenzioso di mezza magistratura? Il «Consigliere» è morto da quattro anni e mezzo, condannato senz’appello a 11 anni di Parkinson.
Già nel 2006 cercavo di non guardargli le mani mentre parlava. Con la sinistra si serrava il polso della destra, poi le copriva una con l’altra e ogni volta era sempre peggio. Era triste vedere colpito nel cervello un uomo così acuto. Non ci incontrammo più. Passai a salutarlo a Catania, quando divenne procuratore generale. «Che fa?» gli chiesi all’inizio del 2010. «Niente, ma non lo scriva».
