Non solo mancata manutenzione, la verità va ricercata nel «reperto 132»… Un clamoroso difetto di costruzione riscontrato dai periti del tribunale riscrive la storia del viadotto collassato quattro anni fa.
Ricordatevi il nome: «reperto 132». Ricordatelo bene, perché è su questo immenso blocco di calcestruzzo, irto di cavi d’acciaio arrugginiti e tanto corrosi da sembrare capelli strappati, che si giocherà il processo per il crollo del Ponte di Genova. Il reperto 132, quasi due tonnellate di peso, è quanto resta della parte più alta dello strallo della pila 9 del viadotto. E i periti sono sicuri: è in quel punto esatto che la mattina del 14 agosto 2018 i trefoli d’acciaio affogati nel cemento dello strallo si sono spezzati, e il viadotto è crollato uccidendo 43 persone.
Da cinque mesi, nel tribunale di Genova è in corso l’udienza preliminare che ai primi d’aprile dovrà stabilire se i 59 imputati meritino o no il processo per una cupa serie di reati: dal crollo all’omicidio plurimo colposo, dall’attentato alla sicurezza dei trasporti all’omissione dolosa di dispositivi di sicurezza.
I due pubblici ministeri, Walter Cotugno e Massimo Terrile, continuano a battere su un solo tasto: il crollo del ponte è stato frutto della mancata manutenzione, della colpevole sottovalutazione del rischio da parte dei massimi dirigenti della Società autostrade per l’Italia (Aspi) e della Spea, la società che si occupa delle manutenzioni per conto del gruppo, oltre che di alcuni funzionari ministeriali.
I difensori degli imputati, invece, puntano il dito contro il reperto 132, perché le perizie del tribunale – in quanto tali, neutrali – hanno stabilito che in quel blocco i trefoli d’acciaio presentavano una corrosione molto più grave e profonda di quella rilevata in qualsiasi altra porzione di macerie. I quattro periti del tribunale hanno certificato che in quel punto, su un totale di 2.359 fili che attorcigliati tra loro formavano i trefoli, il 19 per cento erano «rotti o completamente corrosi»; il 22 per cento erano corrosi almeno per tre quarti; e il 27 per cento erano corrosi almeno per metà. Il 68 per cento dei cavi d’acciaio, insomma, era in pessime condizioni. L’ex procuratore di Genova, Francesco Cozzi, aveva avuto la stessa impressione già il 20 ottobre 2018, quando per la prima volta aveva potuto osservare da vicino il reperto 132 ricoverato nel grande hangar dove le macerie del ponte erano state allineate come prove del disastro: «È un elemento cruciale per l’indagine» aveva affermato Cozzi «perché i rilievi hanno dimostrato infatti che i cavi si sono strappati con ogni probabilità alla sommità della pila».
L’avvocato Rinaldo Romanelli, che assiste due dirigenti della Spea, oggi rimprovera all’accusa di non avere «mai parlato dell’unico fatto che ha determinato il crollo del ponte, cioè il difetto di costruzione della pila 9». E il suo collega Guido Carlo Alleva, difensore dell’ex amministratore delegato di Aspi, Giovanni Castellucci, conferma che la procura «non ha mai affrontato il problema centrale, cioè le cause effettive del crollo».
In effetti, nel loro studio monumentale, i quattro periti del tribunale concentrano l’attenzione proprio sul reperto 132. E rivelano che in quel punto, verso la fine dei lavori della pila 9 del ponte, l’ultima delle tre alte «torri» previste dal progetto dell’ingegner Riccardo Morandi, nel luglio 1967 si sarebbe compiuto un errore cruciale. Secondo i piani di Morandi, infatti, il calcestruzzo precompresso – posato in base a una sua tecnica brevettata, che all’epoca era sperimentale – avrebbe dovuto avvolgere e coprire perfettamente l’intera lunghezza degli stralli d’acciaio, i poderosi tiranti obliqui cui era affidata la tenuta del viadotto, e così metterli al riparo dagli agenti atmosferici e dalla corrosione. Il cemento, infatti, ha caratteristiche alcaline che proteggono l’acciaio.
I periti rivelano invece che nella calda estate del 1967, forse per la fretta indotta dall’enorme ritardo accumulato dai lavori affidati dallo Stato alla società Condotte, qualcosa era andato male proprio nella colata del cemento precompresso che doveva proteggere lo strallo a mare della pila 9.
Nella parte più alta, infatti, la colata si era inspiegabilmente interrotta, creando una cavità: una grossa «bolla d’aria» che oggi è visibile nel reperto 132. Per 51 anni, in quella cavità nascosta, l’acqua ha potuto penetrare più facilmente attraverso le fessurazioni, creando le condizioni per la corrosione dei cavi. I periti scrivono di avere riscontrato in quel punto «un elevato tenore di umidità/acque, con contemporanea presenza di elementi aggressivi come solfuri o composti derivati dallo zolfo, e soprattutto cloruri». Aggiungono che sempre in quel punto anche la guaina, che avrebbe dovuto comunque proteggere i trefoli dall’umidità, si era spostata a valle di circa 160 centimetri, e che si era cercato di rimediare «con metodi rudimentali, consistenti in un miscuglio di carta da imballaggi, frammenti di legno e iuta, che non sono riusciti a garantire l’impermeabilità».
Sempre i periti scrivono che in quel blocco anche i trefoli affogati nel cemento «non appaiono disposti con la stessa regolarità» riscontrata negli altri stralli, e che nella gettata del calcestruzzo è avvenuto «uno spostamento dei cavi che li ha affastellati» in un fascio: quel fattore ha contribuito a infragilire lo strallo. È vero che la stessa perizia, nelle sue conclusioni, pone tra le cause del crollo «i controlli e gli interventi che, se eseguiti correttamente, con elevata probabilità lo avrebbero impedito». Ma la scoperta dei difetti concentrati nel reperto 132 ha fatto insorgere le difese: per gli imputati, è la plateale dimostrazione dell’esistenza di un «vizio occulto», un punto debole della costruzione non era individuabile senza avere a disposizione documenti che lo segnalassero. In aula, gli avvocati ora obiettano che la «bolla d’aria» risultava impossibile da scoprire, annegata com’era in mezzo metro di calcestruzzo al sommo della pila 9.
L’avvocato Romanelli ha sottolineato che chi aveva condotto i lavori, nel 1967, «si era perfettamente reso conto del problema. Il fatto che abbiano lasciato i cavi scoperti li ha fatti cominciare a corrodere già un secondo dopo la costruzione. Ma questi difetti non erano visibili esternamente». I periti, in effetti, segnalano di non essere riusciti a trovare documenti utili per capire cosa fosse accaduto nel 1967 in cima alla pila 9: forse sono andati persi, o forse non sono mai stati redatti. «Non è stato possibile ritrovare i verbali delle operazioni di tiro dei cavi della pila 9», scrivono.
E sottolineano che comunque quella pila venne realizzata con «un livello di qualità di costruzione inferiore alle altre due» e «con una rilevante carenza di controlli da parte della direzione lavori, soprattutto nelle fasi cruciali». Per di più, proprio la pila 9 fu l’unica a non essere «mai interessata da alcuna prova di carico». E siamo solo all’inizio. Preparatevi, perché la battaglia sul reperto 132 è appena cominciata.
