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Una pista russa per Falcone

Una pista russa per Falcone

Poco prima di essere assassinato, il magistrato arrivato al ministero della Giustizia si stava interessando alla formidabile massa di denaro giunto da Mosca ai partiti comunisti europei, tra cui quello italiano. Era una «finanza» invisibile che, a inizio anni Novanta, passava anche dalla mafia dell’Unione sovietica… Questo filone d’indagine però non è mai stato approfondito.


È stata Cosa nostra, certo. Ma vi stupireste se un giorno si scoprisse che a organizzare la strage di Capaci intervennero anche altri interessi criminali, che si affiancarono al desiderio di vendetta dei boss siciliani con un movente del tutto diverso? E che altre mani, rimaste nell’ombra, parteciparono all’attentato che il 23 maggio 1992 uccise Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e i tre agenti della scorta?

Da trent’anni, questa sarebbe la sconvolgente verità di cui è fermamente convinto Valentin Stepankov, il magistrato che nel dicembre 1991, al crollo dell’Unione sovietica, era divenuto il primo procuratore generale della nuova Federazione russa. Stepankov era stato incaricato dal presidente Boris Yeltsin d’indagare sui finanziamenti che negli ultimi 20 anni il Partito comunista dell’Urss aveva elargito ai 72 «partiti fratelli» d’Occidente. Il governo di Yeltsin, soprattutto, aveva scoperto che poco prima di cadere il regime sovietico aveva trasferito segretamente all’estero una formidabile massa di denaro: è innanzitutto su questo colossale «furto» contro il popolo russo che deve indagare Stepankov, se possibile per riportarne una parte in patria.

Per lunghi mesi, il procuratore generale indaga in Occidente. Va in Francia, Portogallo, Svizzera. Ma il suo obiettivo principale, presto, diventa l’Italia. Nella storia, del resto, il primo dei destinatari dell’oro di Mosca è sempre stato il Partito comunista italiano. Al Pci, tra il 1951 e il 1991, il «Fondo di assistenza internazionale ai partiti e alle organizzazioni operaie e di sinistra» del Pcus ha passato segretamente l’equivalente di almeno mille miliardi di lire su un totale di 4 mila miliardi a livello globale. Quel flusso occulto è continuato sempre, fino alla fine del Pcus, anche quando nell’ottobre 1989 Achille Occhetto ha sciolto il Pci per fondare il Partito democratico della sinistra.

Per questo Stepankov si convince che il nostro Paese sia stato coinvolto in modo rilevante anche nel riciclaggio dei fondi usciti dalla Russia al crollo del regime sovietico. Scopre che, quando i vertici del Pcus hanno capito di non avere più molto tempo, si sono appoggiati direttamente alla Organizacija, la potente mafia dell’Urss che soprattutto negli ultimi anni si è infiltrata nel Partito e nello Stato, e insieme hanno creato un sistema di «finanza invisibile», una sofisticata struttura internazionale di riciclaggio. È una rete che gode dell’appoggio decisivo dei servizi del Kgb, a sua volta più che permeabile agli interessi mafiosi, e grazie a consolidati rapporti criminali trova la sua sponda più efficiente nell’Italia di Cosa nostra.

È qui che entra in gioco Falcone: nel febbraio 1991 ha lasciato il tribunale di Palermo per traslocare a Roma, come direttore generale dell’Ufficio affari penali del ministero della Giustizia. È stato il guardasigilli socialista Claudio Martelli a convincerlo. In quel ruolo, Falcone comincia a lavorare a grandi riforme ordinamentali, sogna la superprocura antimafia. Ma si occupa anche delle rogatorie internazionali, le indagini compiute dai magistrati italiani all’estero, e tiene i contatti istituzionali con gli omologhi stranieri. È proprio per questo se nell’estate 1991 la sua vita s’incrocia con quella di Stepankov, che da Mosca gli chiede assistenza per le indagini sui finanziamenti occulti al Pci e sui soldi trafugati dal Pcus. Falcone si appassiona al caso.

Tra i due magistrati c’è un primo incontro a Roma, nel febbraio 1992. Nei mesi successivi continuano a comunicare a distanza, si scambiano documenti. Stabiliscono che Falcone volerà a Mosca alla fine di maggio. Ma l’appuntamento viene bruscamente annullato il 23 maggio dal tritolo che a Capaci spezza l’autostrada. Quel pomeriggio, davanti alle sconvolgenti immagini del cratere, Stepankov non ha dubbi: a fermare il collega siciliano è stato un intreccio di interessi, e la manovalanza del Kgb ha offerto il suo aiuto tecnico. Il metodo dell’attentato, del resto, pare decisamente più affine alle tecniche delle centrali del terrorismo internazionale, governato dai servizi segreti orientali, che alle usuali metodologie della mafia. L’indomani i giornali russi – che da tempo seguono con crescente interesse le indagini di Stepankov – scrivono che la morte di Falcone è inevitabilmente collegata all’imminenza del suo viaggio a Mosca. La coincidenza tra le due date, invece, viene ignorata dai giornali italiani.

C’è una concreta pista rossa per la morte di Falcone, insomma. O meglio, una pista russa che da noi per trent’anni è stata nascosta, occultata, cancellata dall’orizzonte ottico. Claudio Martelli conferma oggi che Falcone e Stepankov nell’estate 1992 lavoravano su due diversi filoni d’indagine: «I finanziamenti del Pcus al Pci era il primo» spiega l’ex ministro «perché la procura generale di Mosca voleva capire se nel crollo generale dell’Urss quei flussi avevano preso altre strade. Ma poi c’era il tema della mafia russa, che aveva messo gli occhi sull’Italia e iniziato un dialogo con Cosa nostra. L’interesse della giustizia di quel Paese guardava già all’insorgere di oligarchi dai contorni opachi e dai modi risoluti».

La pista russa come causa o concausa della morte di Falcone, quindi, non è solo clamorosa: ha anche autorevoli conferme. Eppure negli ultimi 30 anni, in Italia, se ne trovano rare e vaghe tracce. Soltanto il giornalista Francesco Bigazzi ne ha scritto diffusamente in un libro-intervista con Stepankov, L’ultimo viaggio di Falcone a Mosca (Mondadori), dove il magistrato russo conferma che l’attentato è stato «un’azione che non poteva essere messa in atto da semplici mafiosi, senza una regia occulta».

Qualche rivelazione importante compare nel saggio Storia d’Italia da Mussolini a Berlusconi (Rai-Eri e Mondadori) scritto da Bruno Vespa nel 2006, dove Francesco Cossiga tira in ballo l’ex leader comunista Massimo D’Alema: «Mi ha confermato che i sovietici allocarono questi fondi presso i conti dei partiti comunisti occidentali e di organizzazioni collaterali. Però ha aggiunto che, quando un uomo di finanza italiano, non comunista, andò a chiedergli se poteva mettere a disposizione i conti del Pci in Italia e in Svizzera per versarvi i fondi del Pcus, lui gli rispose negativamente».

In quel libro, Vespa intervista anche Giulio Andreotti, che nel 1992 era presidente del Consiglio. E anche Andreotti gli rivela di aver sempre avuto il sospetto che dietro l’assassinio di Falcone ci fosse lo zampino dei servizi segreti sovietici: «Non l’ho mai detto» spiega «per non attirarmi l’accusa di voler distogliere i sospetti dalla mafia, ma nulla impedisce di pensare che le due cose si siano sommate». Vespa chiede ad Andreotti perché mai i servizi sovietici, o meglio quanto era rimasto del Kgb nel 1992, avrebbero avuto interesse a uccidere Falcone. La risposta conferma quella di Cossiga: «Perché Falcone si occupava della fine che avevano fatto i fondi segreti che il Pcus aveva tentato di esportare in Italia dopo la caduta del Muro, ricevendo il rifiuto dei comunisti italiani. Si riteneva, in ogni caso, che quei fondi fossero transitati in Italia, ma dai documenti noti non si riusciva a ricostruirne il percorso e la destinazione finale».

Ci sarà mai un magistrato che voglia occuparsi di questa pista?

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