Fauna selvatica ferita o con problemi, che non viene assistita in modo corretto in centri naturalistici che sono designati (e finanziati) per questo. E così l’ecologismo si trasforma in business.
«Da due settimane nel nostro soggiorno c’è un riccio. Gli abbiamo comprato una gabbia per criceti, sistemato una ciotola per l’acqua e una vaschetta per le larve. Fino a quando non ha iniziato a mangiare da solo, l’abbiamo imboccato con delle pinzette. Con una siringa gli abbiamo dato antibiotici e antidolorifici per una settimana». Parlano così Federico e Debora, che vivono in provincia di Siena dove lavorano in una struttura pubblica. «È stata la nostra veterinaria, quando gli abbiamo portato l’animaletto aggredito dal nostro cane, a sconsigliarci di chiamare le associazioni di riferimento del territorio. Il motivo? Se lo avessimo portato in un’oasi deputata, probabilmente lo avrebbero lasciato morire perché ritenuto troppo piccolo e bisognoso di attenzioni. Ed è così che, per salvarlo, siamo diventati due fuorilegge».
Effettivamente secondo la legge 157 del 1992 la «fauna selvatica è patrimonio indisponibile dello Stato ed è tutelata nell’interesse della comunità nazionale ed internazionale». Il suo possesso comporta, oltre il sequestro dell’animale, l’arresto da sei mesi a due anni e un’ammenda di svariate migliaia di euro. Pene notevoli che non sembrano però scoraggiare i numerosi italiani che preferiscono rischiare una denuncia piuttosto che rivolgersi ai Cras (Centro di recupero animali selvatici). A sostenere questa scelta una rete carbonara di veterinari. Fra questi Maurizio, da oltre trent’anni impegnato in provincia di Roma: «Nessuno vuole ammetterlo, ma queste oasi deputate ad accogliere gli animali feriti spesso si trasformano in oasi della morte. Campi di concentramento dove esseri viventi più fragili e in difficoltà vengono portati a spirare. La scusa che spesso si dà è che, in natura, non avrebbero possibilità. La verità è che alcuni trattamenti impegnativi e costosi vengono accantonati a favore di soluzioni finali. Tanto non c’è nessuno a cui dover rendere conto. Non ci sono proprietari, o ispezioni. Niente di niente». Ma non è tutto. «Chi viene impiegato in queste strutture spesso non solo non ha alcuna competenza specifica, non sono interessate al benessere animale e vengono pagate a nero. Sono persone che cercano un impiego unicamente per sbarcare il lunario».
Come segnalato dall’Ecosportello di Legambiente, in Italia sono circa mille i centri che operano nel settore. Al Fondo per il recupero della fauna selvatica, istituito dal ministero dell’Ambiente nel 2021 con una dotazione iniziale di un milione di euro, secondo le ultime due leggi di Bilancio sono stati destinati complessivamente 5,5 milioni di euro. «Si tratta di cifre importanti, ma non sono le uniche» confessa un veterinario piemontese che vuole mantenere l’anonimato. «Spesso questi luoghi raccolgono, grazie anche all’attenzione che riescono a riscuotere sui social, donazioni significative. Ma c’è un inghippo: sovente le valutazioni e i finanziamenti sono legati agli animali che vengono genericamente trattati, non a quelli che vengono rilasciati vivi». In pratica ci sarebbe un vuoto nel sistema che, non facendo distinguo in base alla sorte degli interessati, sostiene in alcuni casi comportamenti illegittimi. «Difficilmente infatti chi consegna un animale poi riesce a seguirne e a verificarne il destino, e così si entra in una terra di nessuno priva di tutele», conclude la fonte di Panorama.
Fanno riflettere le testimonianze – che abbiamo raccolto nelle ultime settimane, e che spesso sono rilanciate attraverso appelli social – di persone che dopo aver consegnato rondini, pipistrelli, gufi e ricci a centri territoriali hanno scoperto di una scomparsa precoce. Esemplare il caso di Cecilia Malagrinò che ci racconta, furiosa: «Avevo trovato nel cortile di casa mia a Pistoia un rondone per terra, con un’ala spezzata. Ho seguito l’iter di legge, affidandolo al contatto locale di una nota organizzazione. Nei giorni successivi ho provato più volte a chiamare per sapere che fine avesse fatto, fino a quando non mi è stato detto che era morto. Solo dopo sono venuta a conoscenza della fama del centro. Non me lo perdonerò mai». Non si tratta di una novità per le tante organizzazioni impegnate sul campo. «Capita di raccogliere denunce di maltrattamenti o di trattamenti non adeguati di fauna selvatica» riflette Stefano Raimondi, coordinatore delle aree protette di Legambiente, che precisa come in questi casi sia sempre bene rivolgersi ai carabinieri forestali, che rispondono al numero di telefono 15.15.
«Sempre più persone non hanno fiducia in queste strutture e scelgono di fare da sole» spiega Paola, veterinaria in Umbria. «Sa quante volte ho dovuto consigliare di curare a casa propria il pipistrello, l’uccellino o la tartarughina trovati in condizioni pietose? In decine di situazioni. Con le solite raccomandazioni: non fare video o foto da condividere sui social, evitare di raccontarlo in giro. Il problema non è solo la questione legislativa, ma soprattutto quella relativa agli animalisti, che non si rendono conto delle violenze cui la fauna selvatica è sottoposta». Ma cosa prevede la legge quando si trova un animale selvatico ferito? «Per prima cosa bisognerebbe essere certi del fatto che questo abbia per davvero bisogno di aiuto. Molto spesso le persone intervengono su animali semplicemente nascosti nell’erba o in una siepe in attesa del ritorno della madre. Una volta appurato ciò, vengono portati in un’oasi dove sono curati. Qui in genere c’è un veterinario che valuta la fattibilità del recupero e il destino dell’animale anche da un punto di vista etico. In libertà tornano solo quelli in grado di farcela da soli» commenta Mia Canestrini, zoologa e divulgatrice, autrice di Nelle terre dei lupi (Piemme).
«Una volta accertata una situazione di pericolo si può cercare il centro di recupero più vicino, o rivolgersi direttamente al numero unico europeo 112 che poi smista le telefonate. In Italia si contano circa 60 mila specie animali, un terzo di quelle europee. Una grande ricchezza che va tutelata» le fa eco Stefano Raimondi di Legambiente, in prima linea sul tema con sigle ambientaliste come Wwf e Lipu. Tema molto caro anche a Michela Brambilla, parlamentare del gruppo Noi moderati, che ha elaborata una proposta di legge per la fauna selvatica e spiega come sia necessaria «una tutela rafforzata quantomeno per le specie protette, a cominciare da quelle indicate nella legge sulla caccia e nelle direttive europee uccelli e habitat. Invece di alimentare odio verso orsi e lupi e selvatici in generale, bisognerebbe proteggerli di più. L’Italia è il Paese europeo più ricco di specie animali e vegetali, ma l’89 per cento degli habitat terrestri e delle acque interne è in cattivo stato di conservazione e il 37 per cento delle specie di uccelli che vivono in Italia è a rischio di estinzione. Dovrebbe essere un problema, no?». Evidentemente non è così. Brambilla allora rincara: «Questi animali che in realtà sono di tutti, ho voluto battezzarli provocatoriamente “animali di nessuno” per sottolineare il fatto che pochi, nella nostra società, se ne occupano e se ne preoccupano. Eppure, a pensarci bene, ogni minaccia alla biodiversità è una minaccia alla specie umana». Almeno sulla carta.
